Non è una storia prettamente garfagnina, ma merita di essere raccontata

Siamo nel comune di Stazzema in Versilia, anche se, questo luogo da Gallicano è raggiungibile in appena 40 minuti circa. Questo posto fa parte delle nostre magnifiche Alpi Apuane e siamo appunto sull’Alto Matanna, luogo incantevole per le escursioni verso il Monte Croce, il Procinto, il Monte Forato e altre mete ancora. Per chi come me è un po’ più pigro può approfittare dei suoi verdi prati per pic-nic e scampagnate in famiglia.

Ad accoglierci appena lasciata l’auto nel parcheggio, fra i maestosi larici c’è l’albergo (rifugio) Alto Matanna, un posto dove dormire e mangiare per poi avventurarsi sui magnifici monti circostanti. Questo albergo però nasconde una storia tutta vera, di altri tempi, anch’essa stupefacente e meravigliosa, una storia che sembra uscita da un libro fantascientifico di Jules Verne o perchè no, da un romanzo di avventure di Mark Twain.

Tutto ebbe inizio alla fine dell’800 quando un ambizioso fabbro di Palagnana di nome Alemanno Barsi decise di sposarsi. Questa moglie era una donnina minuta, non troppo alta e forse neanche tanto bella, ma in compenso possedeva come dote un barile di marenghi d’oro e questo era quanto bastava per le ambizioni del fabbro. Alemanno con quella dote potè dare sfogo alle sue aspirazioni. Fu così che nel 1890 inaugurò al Basso Matanna (Palagnana) un nuovo albergo (oggi dismesso).

Eravamo in quel periodo in cui si cominciava a parlare di villeggiature, di vacanze e i signorotti dell’epoca approfittavano di questo modo nuovo di concepire la vita e quindi i clienti a questo nuovo albergo non mancavano e nonostante l’altitudine (750 m) era dotato di tutti i confort più moderni (per l’epoca),si poteva telefonare direttamente a Viareggio e i quotidiani arrivavano puntuali tutti i giorni. Gli anni passavano e ad Alemanno nacque un figlio, Daniele, che una volta grandicello intraprese il mestiere di rappresentante di utensili da lavoro.

Nel suo viaggiare Daniele conobbe una bella signorina di nome Rosetta di Montecarlo di Lucca, anche lei con una dote molto consistente (tale padre, tale figlio…) e si sposò. Rosetta fu confinata subito a dirigere l’albergo del Basso Matanna, dove con grande eleganza lo arredò nel classico stile inglese come era di moda in quegli anni nella vicina Bagni di Lucca (n.d.r:Bagni di Lucca intorno al 1850 fu meta turistica ambita per le sue terme da inglesi ed americani,tanti decisero di rimanerci a vivere,tant’è che nella cittadina esiste un cimitero inglese e una chiesa anglicana). Nel frattempo il buon Alemanno costruì un altro albergo stavolta all’Alto Matanna (quello ancora oggi esistente e attivo), un posto favoloso,una posizione incantevole, attorniato dalle Alpi Apuane a 1.037 metri d’altitudine, dalla sommità dei suoi monti si può ammirare l’arcipelago toscano, insomma la famiglia Barsi lassù voleva creare una “Svizzera in Toscana”.

Il problema rimaneva l’accessibilità e in più bisognava in qualche maniera attirare i clienti più ricchi e aristocratici, quei clienti però frequentavano le spiagge di Viareggio, e Matanna era raggiungibile a piedi o a dorso di mulo. Come risolvere allora il grave problema? Ci pensò il figlio Daniele, fu una trovata sensazionale, di sicuro impatto, si pensò di portare questi nuovi villeggianti dal mare ai monti utilizzando un pallone aerostatico frenato, una mongolfiera che scorreva su cavi di acciaio che doveva partire dalla Grotta dell’Onda (che si trova a 710 metri d’altezza sul versante meridionale del Monte Matanna, sul lato versiliese).

Questi cavi guida erano del diametro di 27 mm, la capacità di trasporto sarebbe stata di 6 persone più il comandante, il diametro del pallone era di 14 metri, l’altezza dell’aerostato in volo superava i 20 metri. I lavori così partirono, nell’area della Grotta dell’Onda fu costruito l’hangar di legno, il quale poggiava su una base in muratura, mentre da cento e passa operai fu elevato un cavo metallico portante di 800 metri. Il volo di collaudo fu effettuato con successo il 21 agosto 1910. Tutto quindi era previsto in ogni dettaglio, gli ospiti sarebbero stati prelevati dalla stazione di Viareggio, di lì condotti in automobile fino a Candalla (località di montagna versiliese), poi con la portantina o a dorso di mulo condotti fino alla Grotta dell’Onda dove si sarebbero imbarcati sul pallone. Dopo un’oretta circa, una volta giunti alla stazione di arrivo un’altra portantina in 5 minuti portava i turisti in albergo “Alto Matanna”, ricco anche questo di ogni comodità. Finalmente arrivò così anche il giorno dell’inaugurazione, il 28 agosto 1910 alla presenza di tutte le autorità e della stampa.

Agli ordini del comandante Frassinetti si ebbe il primo viaggio ufficiale del “pallone frenato” ribattezzato “Rosetta” (come la moglie del suo ideatore Daniele Barsi), fu un vero tripudio, la cosa funzionava e fu accolta da grande entusiasmo, tutti volevano salire sulla mongolfiera, tutti volevano sostare all’albergo” Alto Matanna”. Ospiti a dir poco illustri volarono con questo pallone, le teste coronate di tutta Europa ambivano a questo viaggio, infatti il Re del Belgio Alberto I con famiglia al seguito vi viaggiò, per non parlare poi dell’Infanta di Spagna Maria Teresa di Borbone sorella del re Alfonso XIII e poi scienziati, professori, nobili, poeti. Come si sa però in tutte le belle storie esiste sempre un MA.

Su questa storia aleggiava un brutto presentimento, sì, perché è bene dire che nella zona di costruzione dell’hangar e della posa dei cavi era presente una “mestaina”, una Madonnina molto antica che gli operai distrussero per realizzare il progetto. La gente di Casoli (frazione di Camaiore a ridosso delle Alpi Apuane) avvertì gli ingegneri e i proprietari che era stato profanato un luogo sacro e che in qualche modo prima o poi il buon Dio se ne sarebbe ricordato. Arrivò così l’inverno del 1911 quando una notte di febbraio una spaventosa tempesta si abbatté violentemente sulla zona. Dagli abitanti di Casoli fu udito un grande schianto dalle parti della Grotta dell’Onda dove c’era l’hangar che custodiva la mongolfiera nella stagione invernale.

Il mattino seguente gli abitanti del paesello si resero conto del terribile schianto avvenuto e salirono fin lassù. Quello che videro fu apocalittico, l’hangar era completamente distrutto, come stritolato e la stessa misera fine toccò al pallone anch’esso ridotto a brandelli. Volenti o nolenti, credenti o meno la profezia degli abitanti di Casoli si avverò, le forze divine si erano vendicate della profanazione del luogo sacro sentenziando così la fine dell’epica impresa dei Barsi. Sono passati esattamente 110 anni da quei giorni e ancora oggi è visibile per chi percorre quei sentieri la struttura di cemento e le pietre su cui poggiava l’hangar.

Assieme alle nostre ricchezze artistiche e paesaggistiche a mio avviso bisogna togliersi il cappello anche davanti alla nostra cucina

La cucina garfagnina è di origine contadina, fatta di antichi sapori, di semplicità, di genuinità fatta di piatti sostanziosi perchè così lo richiedeva la dura vita dei campi. Ma vogliamo mettere “i mangiari” che ci faceva la nonna? Io mi ricordo quella polenta di granturco con i funghi porcini in umido, per non parlare poi della mia gioia quando ammiravo quel pentolone con gli ossi di maiale a bollire e sull’altro fuoco la polenta di neccio a cuocere.

Tutti piatti dati dai frutti della nostra terra, non da qualche serra nel sud della Spagna o da qualsiasi altra parte del mondo. I nostri funghi, le nostre castagne… e pensare che oltre a questi abbiamo un altro prodotto di nobili e antichissima genesi che è simbolo del duro lavoro dei campi, anzi direi di più è antico come il lavoro stesso.

 

Questo frutto è il farro, capostipite di tutti i frumenti oggi conosciuti. La sua coltivazione risale a 7.000 anni prima della venuta di Cristo, alimento base degli Assiri, degli Egizi, dei popoli del Medio Oriente e dell’Africa del nord. Secondo recenti studi la sua origine dovrebbe essere in Palestina e guardiamo però un po’ la strada che ha fatto prima di giungere in Garfagnana. Gira che ti rigira in Italia a quanto pare lo portarono i Greci, in quattro e quattr’otto i romani lo fecero loro e diffusero distese di coltivazioni, tanto da divenire il loro piatto forte.

Il “puls” o il “farratum” era un piatto tradizionale, anche qui veniva preparato in vari modi. Un piatto tipico era la “mola salsa” una focaccia usata anche nei riti religiosi, o ancora “il libum” una specie di torta. Era anche simbolo di buon augurio, segno di abbondanza e fertilità e perciò donato agli sposi, inoltre era anche molto fortificante, il medico Galeno (n.d.r: antico medico greco) riferisce che agli eserciti era stato sostituito l’orzo con il farro perchè più energetico e nutriente e per capire meglio ancora la sua importanza è bene dire che insieme al sale era dato come paga ai centurioni stessi.

 

In quell’epoca Roma lo esportò in tutti i luoghi di conquista a partire dalle regioni del nord Europa fino alle estreme province italiche. Ma fra tutte queste province c’era un posto più degli altri dove questo cereale veniva più rigoglioso e abbondante, era la Garfagnana. Da quei lontani tempi il connubio Garfagnana farro è diventato indissolubile, il legame è diventato saldo proprio perchè è l’unico posto in Italia dove viene prodotto ininterrottamente da duemila anni,sopratutto perchè il farro si adatta stupendamente al nostro clima e trova ideale coltivazione in zone comprese fra i 300 metri fino a 1000.

Arrivò poi il momento di crisi anche per il farro, con l’avvento di nuove varietà di frumento nudo (cioè privo di protezione esterna) il nostro cereale venne definitivamente soppiantato e confinato in alcune aree specifiche tanto da venir chiamato “il grano dei poveri”. Nella nostra valle come detto si è sempre coltivato, in una pubblicazione dal titolo “La Garfagnana 1883-1983 Aspetti economici, Agricoli, Urbanistici e Socio-culturali” si riporta un’indagine della produzione agricola fatta nel 1883 nel circondario di Castelnuovo Garfagnana.ù

 

In questa indagine alla voce “farro” si legge: ” Lo coltivano assai, sebbene in pochi comuni, nei luoghi alquanto montuosi ma non troppo elevati. Dopo averlo raccolto nell’agosto lo brillano e ne fanno torte e minestra. Gli alpigiani del comune di S.Romano, Vagli ed altri luoghi ne vendono una certa quantità agli abitanti dei paesi vicini ed ai mercanti: costa circa 36-40 centesimi al chilogrammo”

Curiosità fra le curiosità mi piace sottolineare il fatto che il farro agli inizi del secolo scorso e nell’800 non veniva consumato dai garfagnini, anzi per meglio dire veniva consumato qualche volta, giusto giusto per variare dai soliti piatti a base di castagne e grano turco; ma a tutto questo c’era un perchè, lo si preferiva vendere sul mercato lucchese per guadagnare qualche soldo in più e soddisfare le esigenze della famiglia, anche perchè il farro aveva un prezzo più alto degli altri cereali coltivati.

 

Fra alti e bassi siamo arrivati ai giorni nostri. La grande ripresa e un nuovo “boom” del farro nella nostra valle ci fu agli inizi negli anni 80 quando in un decennio circa si passò da coltivare poche migliaia di metri quadrati a qualche decina di ettari. Arrivò poi il fatidico anno del 1996 quando il farro della Garfagnana ottenne dall’Unione Europea il riconoscimento di indicazione geografica protetta, il famoso I.G.P, divenendo di fatto il nostro prodotto principe.

Oggi esistono circa 100 piccole aziende consorziate con il marchio “Farro della Garfagnana” che producono farro su una superficie di 200 ettari circa. Il consorzio attualmente lavora il 60% dei 2500 quintali di farro prodotto curandone direttamente la vendita. A dimostrazione della buona qualità del prodotto bisogna doverosamente aggiungere che nella fase di semina è assolutamente vietato l’uso di concimi chimici, fitofarmaci e diserbanti.
Che aggiungere, dopo tutto questo mi sarebbe venuta voglia di un minestra di farro fumante magari con un filo di olio “bono” sopra…

Le Alpi Apuane sono patrimonio di tutti, non hanno territorialità, sono un bene comune e noi siamo fortunati perchè le “viviamo” tutti i giorni

Apriamo la finestra di casa ed eccole lì davanti a noi maestose ed imponenti. Sia d’estate che d’inverno sono luogo per le nostre passeggiate ed escursioni. Gustiamo i frutti che ci donano, come funghi, castagne, mirtilli; godiamo della loro aria cristallina. Insomma sono un tesoro che va difeso, ognuno a suo modo. Io nel mio piccolo lo faccio diffondendo le sue belle leggende e le sue storie. Oggi vi narro di come le difendeva Aronte, un gigante posto a guardia dei nostri monti pronto a sfidare chicchessia nemico. Ma prima raccontiamo un po’ di retro scena, giusto due cose (interessanti) per approfondire di più l’argomento.

La storia (non la leggenda) ci dice che Aronte è veramente vissuto e che la sua figura è legata a doppio filo con le Alpi Apuane. Era nato a Luni (oggi in provincia di La Spezia) ed era un potente indovino, forse il più potente dell’epoca, era di origine etrusca e viveva al tempo della Roma di Cesare (50 a.C circa), la sua vita si svolgeva in ascesi e meditazione in una grotta delle Alpi Apuane detta dei “Fantiscritti”, nel versante carrarino.

Un bel giorno l’aruspice (mago) etrusco fu richiamato dai suoi monti dai potenti di Roma per raggiungere la “Città Eterna” e spiegare alcuni misteriosi eventi che si erano manifestati e ai quali veniva attribuita particolare importanza. Infatti, guardando le viscere di un toro sacrificato Aronte presagì le sciagure che si sarebbero abbattute su Roma, come la guerra civile fra Pompeo e Giulio Cesare con la vittoria di quest’ultimo. Dopo questi eventi tutti a Roma lo adoravano. Aronte era considerato colui che: “qui sapientem genuit testimonium centuriae et constituens ad historiam uniuscuiusque hominis” ovvero “un uomo saggio che testimoniava nei secoli il nascere e tramontare di ogni vicenda umana”. Lui nonostante fosse ricoperto di tutti gli onori volle ritornare sulle sue Alpi Apuane e lasciare la gloria agli altri. La sua fama raggiunse più di mille anni dopo anche il sommo poeta Dante Alighieri che lo citò nella Divina Commedia nel XX canto dell’inferno e lo immaginava in una spelonca tra i bianchi marmi sopra Carrara da dove poteva guardare il mare e le stelle:

“Aronta è quei ch’al ventre li s’atterga,
che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese, che di sotto alberga,
ebbe tra bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
E’l mar non gli era la veduta tronca.”

La sua figura divenne così leggendaria nei secoli, l’amore di questo indovino per le sue montagne salì a simbolo di esse, tant’è che si racconta (e qui si entra nella leggenda) che Aronte era un gigante che aveva il compito datogli dagli Dei di difendere le Alpi Apuane dagli attacchi dei nemici che provenivano dal mare. Quando i primi cavatori salirono sui monti per estrarre il marmo e ferire la montagna Aronte scese a valle per impedire agli uomini di rovinare questi meravigliosi monti. Il destino volle che una volta sceso, Aronte incontrasse una giovane fanciulla e se ne innamorasse, ma lei lo respinse. La disperazione e il dolore lo attanagliarono e per il dolore una volta risalito sulle vette delle Apuane morì. Fu così da quel giorno che i monti delle Apuane vollero dimostrare la loro ingratitudine e inimicizia alla gente che abitava sulle coste girandogli “le spalle” e voltarono di fatto verso il mare le loro pareti più scoscese e inaccessibili.

La figura di Aronte era così entrata nel cuore degli amanti di queste montagne, che fu così che nei pressi del Passo Focolaccia (ai piedi del Monte Cavallo), il 18 maggio 1902 fu inaugurato il Rifugio Aronte, un rifugio carico di storia essendo in assoluto il primo costruito sulle Alpi Apuane, detenendo fra l’altro un ennesimo record, perchè posto a 1.642 metri d’altezza, il bivacco più alto dell’intera catena. Dalla Garfagnana lo si può raggiungere lungo la strada marmifera che sale da Gorfigliano, in auto fino alla galleria del Passo della Tombaccia e di lì poi a piedi fino al valico della Focolaccia, tempo di percorrenza circa due ore. Una gita da fare con serenità tanto c’è Aronte che ci protegge.

Monte Sumbra

Durante la creazione del mondo il Signore affidò ai suoi arcangeli prediletti di fare meraviglie del suo Creato. A due di essi affidò il compito di innalzare le Alpi e gli Appennini

“Che sono quei monti? Chiesi molto incuriosito, quasi impaurito. Sono le Alpi Apuane, mi fu spiegato. Ammirai a lungo lo spettacolo inconsueto che mi faceva pensare non so perchè alla creazione del mondo: terre ancora da plasmare che emergevano da un vuoto sconfinato, color incendio”. Questa fu l’impressione di Fosco Maraini (scrittore, fotografo e alpinista) quando alla fine degli Anni ’20 si trovò per la prima volta di fronte a tanta magnificenza, del resto qui trovò il suo ultimo “rifugio”, quando a Pasquigliora (Molazzana) nel lontano 1975 acquistò una casa isolata nel cuore delle Apuane.

Quella casa fu infatti l’ultimo suo amore, il suo universo, in quei monti trovava qualcosa di magico e ancestrale, una concordia di elementi, una natura benigna: “la rivelazione perenne e la montagna come Chiesa”. Difatti quassù, tra le Panie, si aveva proprio l’impressione che Dio c’avesse messo la mano. Anche la tradizione orale dei racconti narrati al fuoco da vecchi sapienti e saggi confermava questa tesi. Per creare tanta grandiosità e bellezza servì infatti un intervento divino.
Era l’inizio di tutto, quando “in principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso…” (Genesi).

alpi apuane garfagnana

Durante la creazione del mondo il Signore affidò ai suoi arcangeli prediletti di fare meraviglie del suo Creato, a due di essi affidò il compito di innalzare a uno le Alpi e all’altro gli Appennini, mise a loro disposizione tutto il materiale necessario: granito, calcare, rena, quarzo, gesso, argilla e un’altro materiale a dir poco prezioso, unico per la sua bellezza, il suo colore era di un bianco accecante, era il marmo.

Nostro Signore considerava talmente pregiata questa pietra che si raccomandò di usarla con parsimonia, un po’ qui e un po’ là. Una volta date le sue disposizioni Dio se ne andò e i due arcangeli di buona lena si misero a lavoro. Il primo si occupò di costituire la cerchia alpina e l’altro si premurò di rafforzare la penisola italiana con una dorsale, prendendosi quindi il compito di plasmare gli Appennini.Il primo arcangelo era molto creativo, pieno d’ingegno e per le Alpi creò pareti vertiginose, picchi scoscesi e guglie acuminate, il secondo aveva un estro più moderato e semplice e modellando gli Appennini cercò forme più sinuose, delicate e lineari.

Il brioso arcangelo delle Alpi lavorò con tanto impeto ed entusiasmo da finire assai presto la propria opera, tempo ne rimaneva ancora e decise così di andare a trovare il suo compagno, vide che questi aveva cominciato il suo lavoro dal basso dello stivale e su, su, piano, piano era arrivato al punto in cui le coste occidentali dell’Italia cominciano a curvare sul Golfo di Genova. Il materiale a sua disposizione cominciava comunque a scarseggiare:

“Ho paura che con quello che ti rimane non giungerai alla fine del tuo compito – disse l’arcangelo delle Alpi all’altro -. Se vuoi un consiglio interrompi da questa parte e continua dove io ho finito le Alpi, proprio nel punto in cui ridiscendono verso il mare, dopodichè una volta uniti gli Appennini e le Alpi procederai fino qui con il materiale che rimane”.

L’arcangelo degli Appennini accettò di buon grado il consiglio e caricandosi sulle spalle pietre, massi e rocce si recò nel punto in cui terminano le Alpi Marittime, creando di fatto l’Appennino Ligure. Rimasto solo l’arcangelo “alpino” vide da una parte che il mucchio di marmi era quasi intatto: “Quanto marmo – esclamò -. D’accordo che Dio aveva detto di usarlo con cautela ma qui abbiamo esagerato – pensò fra sé e sé – bisogna rimediare in qualche maniera”. Pensa che ti ripensa ebbe un’idea che lo entusiasmò: “perchè non usare questo marmo per creare una catena di monti tutta nuova?”.

Ecco allora che la fantasia dell’arcangelo riprese vita, cominciò ad ammassare i marmi sul luogo dove il suo compagno aveva interrotto gli Appennini, fu un vero e proprio prodigio e diede forma a una schiera di monti le cui coste finivano quasi al mare. Che cosa stupefacente ad osservarla da lontano era una meraviglia: i marmi brillavano di luce propria e formavano creste, torrioni, canali, gole e rupi immense, ma quando tornò l’arcangelo degli Appennini il suo entusiasmo si smorzò. “Che hai combinato!? Adesso il Signore ci sgriderà per aver utilizzato tutto il marmo in un unico luogo!”.

Il Signore difatti arrivò, osservò le Alpi e disse che “era cosa buona”, ma arrivato sugli Appennini si fermò e si girò stupito e sbalordito verso quella piccola catena di montagne bianche come il latte che somigliamo così tanto alle Alpi. “Cosa ci fanno qui questi monti? E tutto questo marmo?” I due arcangeli avevano gli occhi bassi, erano confusi e dispiaciuti, ma il buon Dio fu comprensivo, ascoltò le ragioni dei suoi fidati e sorridendo benedì queste montagne dando così il suo assenso a tale portento.

Si raccomandò però solo per un’unica cosa, di nascondere quelle luccicanti vette. “Non voglio che l’uomo veda subito tutto quel marmo, coprite tutto con prati, boschi e selve. Gli uomini dovranno scoprirlo lentamente e dovranno lavorare sodo per estrarlo”. L’ordine fu eseguito e fu così che per migliaia d’anni il marmo sotto queste montagne rimase invisibile, lo scoprirono i romani che per sconfiggere il popolo degli Apuani disboscò quei monti facendo venire così alla luce i primi marmi.
Fu così che quella piccola catena montuosa prese il nome dal fiero popolo apuano, ma non furono chiamati Appennini Apuani, bensì Alpi Apuane visto che il loro “architetto” era proprio lo stesso che aveva modellato le Alpi.

Ci siamo mai domandati come mai il garfagnino dal carattere mite e socievole, cinquecento anni fa era considerato un brigante per eccellenza?

Era così in quel tempo in Garfagnana, chi non faceva il contadino faceva il brigante. Ma quali furono le cause che portarono il mansueto garfagnino ad imbracciare lo schioppo e a depredare e a uccidere la malcapitata vittima di turno? I briganti furono certamente dei fuorilegge, ladri e spesso anche assassini e quindi ingiustificabili, ma nel XVI secolo rappresentarono anche l’unico veicolo di riscatto per chi annegava nell’emarginazione.

Una lettura facile e superficiale di relazioni sul brigantaggio di funzionari estensi tende ad attribuire tale fenomeno all’indole dei garfagnini stessi (ma per favore!…). Al contrario dico io, una lettura attenta di quei documenti porta a ben altre considerazioni sulle cause del brigantaggio locale. Al tempo la pressione fiscale era altissima, cieca e tendeva a colpire le persone veramente più povere, non parliamo poi della giustizia che era amministrata con i dovuti “riguardi” da persona a persona. Anche il pregiudizio la faceva da padrone, dove il cittadino non vedeva di buon occhio il montanaro. Che dire inoltre dell’ambiente ? La montagna diventava rifugio di quelli che venivano allontanati o fuggivano a vario titolo dalle città estensi e che di conseguenza andavano ad ingrossare le file dei manigoldi. Ma alla fine di tutto questo bel discorso, il brigante garfagnino era un criminale o un Robin Hood? Senza ombra di dubbio era entrambe le cose.

E nonostante fosse un malfattore, la natura buona del garfagnino comunque veniva fuori, tanto è vero che il maltolto delle loro vittime talvolta veniva ripartito anche fra la gente comune che a sua volta così garantiva una certa protezione ai fuorilegge. Andiamo a vedere allora chi era da considerarsi il più Robin Hood di tutti fra i briganti nostrani. Lui era Filippo Pacchione capobanda di San Pellegrino, che in più casi seppe distinguersi per la sua onorabilità, gentilezza e cavalleria. Lo potrebbe testimoniare se fosse ancora oggi in vita Ludovico Ariosto stesso, commissario estense venuto in queste terre per combattere queste risme di delinquenti e proprio quando saliva il passo verso Modena (luogo privilegiato per questi assalti) insieme alla sua scorta fu assalito in un agguato e derubato dei suoi averi.

All’improvviso uno della banda Pacchione pronunciò il nome Ariosto ed il bandito svelto domandò:
– Dov’è? Dov’è Messer Ariosto?-
– Sono io- rispose il poeta
– Compagni udite- disse Filippo Pacchione- che non sia torto un capello al grande Ariosto!-
Tutta la merce fu restituita ed il brigante aggiunse:
-Messere, anche i banditi della Garfagnana, che sferzate nelle vostre satire, vi apprezzano e vi rispettano-
e si inchinò ossequioso per sparire nel folto dei boschi.

L’altra storia riguarda la nobildonna veneziana Bianca Cappello, colei che diventerà prima amante e poi attraverso intrighi poco chiari anche la moglie del Granduca di Toscana Francesco I de Medici. Bianca era una donna bellissima e come si direbbe oggi un’arrampicatrice sociale e cercava per sé il più ricco marito che le potesse capitare e si “innamorò” (prima di Francesco de Medici) del fiorentino Pietro Bonaventura, impiegato a quel tempo al Banco Salviati di Venezia, ma i progetti dei genitori per lei erano diversi. La madre la voleva far suora e il padre la voleva dare in sposa ad un vecchio. Non rimaneva che fuggire a Firenze a casa del promesso sposo ed andare a celebrare il matrimonio. Arrivarono a Ferrara e lì il segretario di Alfonso II duca di Modena li fece sposare in fretta e furia (lei aveva 15 anni) per proseguire poi di gran carriera verso Modena e da lì a piedi con il freddo e la neve giunsero a San Pellegrino.

In quell’inverno del 1573 era custode dell’ eremo di San Pellegrino tale Pierone da Frassinoro che prima li accolse con diffidenza e poi saputo chi li mandava gli spalancò le porte del convento. La mattina di buon ora partirono verso Castelnuovo Garfagnana guidati da Pierone, giunti a Campori incontrarono lungo la loro strada proprio Filippo Pacchione che con fine sarcasmo e ironia così li accolse (vi riporto fedelmente le parole del brigante raccolte da Raffaello Raffaelli nel suo “Descrizione geografica storica della Garfagnana”):

-Madonna; ben conviene che importanti affari vi abbiano consigliata ad un viaggio che pochissimi si attentano in questa stagione di fare, e potete chiamarvi fortunata di non esser caduta nelle mani degli assassini che infestano questa strada.-
Pierone riconobbe il brigante e ormai anche se aveva passato gli 80 anni incuteva ancora timore. Ai novelli sposi come “regalia di nozze” Pacchione offrì la sua protezione attraverso le terre di Garfagnana e una volta rimandato a casa Pierone una scorta di briganti li accompagnò nei giorni a seguire attraverso Castelnuovo, Monte Perpoli, Gallicano e Borgo a Mozzano e li furono lasciati a rimuginare sullo scampato pericolo avendo sempre in mente le parole del brigante:

-Una gentil donna deve saper quant’è periglioso affrontar l’Appennino, onde fieri e spietati briganti non permettono a nessuno di passare indenni quelle strade…-

Così questa è la storia di Pacchione l’unico brigante che una volta morto rievette l’onore delle armi dalle guardie estensi, gli venne riconosciuto “ossequio cavalleresco, lealtà e valore”.
Storie di un garfagnino di altri tempi…

Monte Sella Garfagnana

Se il Pisanino è il re della Apuane e la Pania la sua regina, possiamo considerare il Sumbra il loro principe

Il Monte Sumbra chiamato così a quanto pare perché la sua mole imponente (specialmente se osservata da Vagli) ha l’aspetto di un animale accovacciato o di una sfinge che siede sulla propria ombra. Si trova diviso fra due comuni garfagnini: Vagli e Careggine. La sua vetta arriva a 1.769 metri d’altezza e lo si può raggiungere facilmente da Capanne di Careggine godendo di panorami unici e severissimi, mentre percorrendo la SP13 nel tratto da Campaccio a Tre Fiumi si può facilmente apprezzare tutto il grandioso versante meridionale. Da questo versante costeggiando i fianchi del monte un sentiero ci porta al bosco del Fatonero, una faggeta incantevole che tradizione vuole che sia abitato dai linchetti.

Ma la cosa che più sorprende l’escursionista e ciò che produssero i giganti (come leggenda dice) che abitavano queste zone: delle smisurate marmitte. La parete del Sumbra è un esteso squarcio nella montagna, una parete ripida e scoscesa interrotta da profondi canaloni e qui in fondo si aprono le famose Marmitte dei Giganti. Come se un gigantesco colpo di vanga avesse rotto il monte per far vedere il cuore del marmo bianco immacolato, candido come lo stesso  cuore dei generosi giganti che abitavano quei profondi canaloni inaccessibili all’uomo.

Trekking sul monte sumbra

Si racconta che questi incavi nella roccia furono fatti da questi esseri mitici per creare così delle immense “scodelle” che potessero raccogliere l’acqua piovana che sarebbe servita per dissetarli. In verità si tratta di profonde buche cilindriche scavate nel letto dei torrenti dalla lenta azione erosiva dell’acqua e dei sassi trasportati. Possono arrivare fino a sei metri di diametro per un metro e sessanta di profondità. Ma siccome noi siamo anime sognatrici lasciamo da parte la scienza ed entriamo ancor di più nel leggendario e nel fantastico. La generosità di questi giganti è raccontata da una leggenda che narra delle fatiche e della povertà in cui viveva la gente di Garfagnana molto tempo fa.

Un vecchio pastore delle Capanne di Careggine abitava con i suoi piccoli due nipoti in una capanna fuori paese. Questi bambini erano rimasti purtroppo orfani di padre e di madre. La loro era una vita grama e il povero nonno non aveva neanche più le energie di una volta ed era sempre più difficile provvedere a sfamare sé stesso e i piccoli nipoti. Per sbarcare il lunario il povero vecchio accettava umili e faticosi lavori a destra e a manca, andava dal vicino di casa a tagliare legna, correva dal contadino ad accudire gli animali, ma poi quando sopraggiungeva l’inverno le difficoltà aumentavamo e non aveva niente da mangiare cosicchè chiedeva aiuto ai paesani.

Una mattina il nonno e i nipoti salirono sul Sumbra a raccogliere erbe che li crescevano abbondanti,lasciò i nipoti a raccogliere gli “erbi” mentre lui si mise a sedere ai piedi di una roccia, le lacrime cominciarono a solcare il viso del vecchio, la disperazione prese l’uomo che non riusciva a dare da mangiare ai piccoli. Il giorno seguente il vecchio risalì sul monte a cogliere ancora le erbe e quando ebbe terminato ritornò alla solita roccia del giorno prima a riposarsi e con grande meraviglia vide un mucchietto di sale proprio nel posto dove il giorno prima aveva versato le lacrime. In quei tempi il sale era merce preziosa perché in Garfagnana scarseggiava ovunque ed era necessario per la conservazione dei cibi, possederne anche solo un po’ era considerata una vera e propria fortuna.

Il pastore se ne riempi le tasche e corse subito in paese a scambiarlo con farina, carne, fagioli e tutto questo andò avanti per molto tempo. Per molte mattine il nonno saliva sulla montagna trovava il mucchietto di sale e lo barattava riuscendo così a mettere da parte una buona scorta di cibo e anche qualche denaro. Un bel giorno tornando sul monte il vecchio non trovò più il sale, ma non se la prese più di tanto, la vita adesso era molto meno dura, il suo sguardo così si voltò involontariamente verso la roccia e vide scolpita sulla sua superficie il volto di tre giganti che sorridevano.

Volti misteriosi ed amici che lo avevano aiutato lasciando lì il sale nella notti passate. Avevano scolpito i loro volti nella pietra perchè gli uomini si ricordassero della loro generosità ed oggi li possiamo vedere ancora là dove il sentiero esce dal bosco e si affaccia sul nudo precipizio del Sumbra.
Posti e luoghi che meritano di essere visitati, un posto questo quasi lunare che toglie il respiro e ha il potere magico di fermare il tempo all’epoca mitica dei giganti.

“Ci sono tre predatori che mettono paura all’uomo medio: lo squalo, un branco di lupi,e il dipartimento delle tasse”, così ebbe a dire Sir Charles James Lyall funzionario di sua maestà britannica nelle lontane Indie.

Questa frase in parte può essere accostata anche alla nostra Garfagnana, poichè togliendo lo squalo la paura rimane (da tempo immemore) per le tasse e da qualche anno è tornata a galla per il ritorno dei lupi. Ormai erano spariti dalle nostre terre già da molto tempo, ma sono tornati prepotentemente alla ribalta. La loro presenza è segnalata in ogni dove nella valle, si parla di due grossi branchi all’interno del Parco delle Apuane.

A lamentarsi per il grave danno procurato sono i pastori garfagnini, ad esempio in località Cerasa nel comune di Pieve Fosciana delle pecore furono letteralmente sbranate dai lupi. La cosa che però desta più preoccupazione è quello che accadde nel febbraio 2016 a Gorfigliano, quando i lupi scesero dalle pendici apuane per giungere direttamente nel paese, furono avvistati proprio dai paesani stessi che li videro arrivare fino alla piazza principale del borgo, per l’amor di Dio, niente è successo nè a persone nè ad animali domestici, ma un certo timore si fa avanti e a questo proposito furono allertati dal sindaco, sia la Prefettura che la regione che prospettarono come soluzione l’installazione di dissuasori acustici per tenere lontano questi animali.

Si, perché è bene sapere che i lupi non si possono uccidere, quindi la regola di farsi giustizia da soli non vale, anzi il buon lupo deve dire sopratutto grazie della sua salvaguardia a due persone: il ricercatore Luigi Boitani dell’università La Sapienza di Roma ed al professor Erick Ziemen, che all’inizio degli anni ’70 su commissione del W.W.F studiarono la distribuzione della specie e sottolinearono che senza un intervento mirato di li a poco il lupo si sarebbe estinto. Detto fatto in breve tempo (nel 1971) fu emanato un decreto ministeriale che eliminava il lupo dalla lista degli animali nocivi (dove prima era stato inserito con Regio Decreto 1423 del 1923 e che così dettava “la presa degli animali nocivi e feroci può essere fatta con lacci, tagliuole e bocconi avvelenati…”) e proibiva appunto l’uso di questi bocconi.

Nel 1976 a maggior tutela fu introdotto un ennesimo decreto, il decreto Marcora che sanciva la protezione integrale e il divieto di caccia totale, fino poi ad arrivare alla legge vera e propria del 27 dicembre 1977, numero 968 e tanto per rimanere sempre in tema di leggi e decreti ecco ancora un altro decreto, il 121 che punisce i cacciatori di animali protetti con il carcere da uno a sei mesi o un ammenda fino a 4.000 euro. Mica noccioline! La storia garfagnina come vedremo ci dice che nei secoli il lupo ha sempre abitato le nostre montagne, ma allora quali furono le cause della sua scomparsa? E quali le motivazioni per cui è riapparso ai giorni nostri?

La causa primaria della sua scomparsa fu la caccia fatta in maniera selvaggia e continuativa che portò l’animale quasi all’estinzione. D’altronde nei tempi antichi la protezione del gregge era fondamentale per la sopravvivenza e per l’economia di una famiglia. Ecco poi che piano piano e in maniera graduale il lupo è riapparso nelle nostre terre e vediamo come mai. L’abbandono progressivo della montagna da parte dell’uomo e il conseguente ripopolamento di cervi, daini e cinghiali ha fatto sì che il lupo potesse tornare a vivere nei nostri boschi.

Negli anni si sono rincorso molte voci sul fatto che lo stesso lupo fosse stato reintrodotto in Garfagnana per mano umana, ma gli esperti rifiutano questa ipotesi, smentiscono poi di particolari incroci della specie con lupi americani o cecoslovacchi, in parole povere il Centro di salvaguardia del lupo appenninico dice che il ripopolamento (per mezzo dell’uomo) sull’Appennino Tosco- emiliano non c’è mai stato e con queste parole conferma che:– il fenomeno di colonizzazione di nuove aree è totalmente naturale-.

Lupo in Garfagnana

In pratica questo lupo che gira famelico per i greggi nostrali è il solito lupo che già da tempi remotissimi vagava nei boschi di casa nostra, cacciato più che mai in maniera spietata. Si presume che il lupo fosse già presente nella Valle già nel VI secolo d.C, all’indomani delle prime invasioni barbariche, quando questi fieri guerrieri misero a ferro e fuoco sia la Garfagnana che tutta la penisola italiana. Fu un lungo periodo di completa disorganizzazione sociale, per di più la peste e la povertà ridussero notevolmente la popolazione locale, questi fattori crearono le condizioni ideali per il lupo di potersi riprodurre in tutta tranquillità per mancanza di competitor naturali e tutto il territorio era in completo stato di abbandono.

Ma presto l’uomo tornò a fare i conti con questo predatore. La società con il tempo riprese il suo naturale cammino, ora però il lupo era il re assoluto dei boschi e delle selve. Il numero di questi predatori in quegli anni raggiunse livelli mai più visti, tanto da mettere in serio pericolo le persone e ciò che gli apparteneva. Siamo infatti intorno al 1300 quando cominciano a nascere le leggende e le credenze più disparate su questo animale ed è proprio in quel periodo che il lupo suo malgrado diventa il protagonista cattivo delle fiabe. Ecco allora che uccidere un lupo diventa un atto di giustizia e un dovere e le carcasse dei lupi più feroci vengono esposte fuori dai paesi garfagnini, ma non solo, per quanto la cosa appaia ridicola ci sono documenti che attestano di processi a questo animale. Si ha , infatti, notizia di maledizioni lanciate sulle belve ad opera di preti, dal momento che è il lupo che viene cavalcato

dalle streghe per andare al sabba e le stesse si dice che abbiano rapporti sessuali con questo animale. Il lupo così si sarà fatto nei secoli la sua etichetta, per tutti adesso rappresenta il male e per questo doveva essere combattuto con tutti i mezzi possibili e i legislatori dei nostri comuni adottarono vari sistemi per vincerlo. Il più praticato era mettere una vera e propria taglia sulla testa del mal capitato animale. Il comune era quindi pronto ad elargire premio in denaro a chiunque portasse un lupo vivo o morto. Addirittura in certi comuni si faceva l’obbligo ai contadini di dare la caccia all’animale. A questi propositi ecco una norma della Stato di Lucca del 24 maggio 1343 che così diceva:

“Bandisce da parte di messer lo Vice vicario
Che ciascuna persona di qualunque conditione sia, la quale consegnerà et appresenterà alla Camera di Lucca alcuno lupo o lupa vivo o morto arà incontenente dal Camarlingo della dicta camera tre lire di piccioli, se serà lupo grande et atto a nuocere; e se fusse delli altri lupi piccoli, di ciascuno vivo, avrà soldi XL, et di ciascuno morto soldi XX…”

Branchi di lupi sterminati messi in mostra
fuori dal paese

Ma questi soldi non bastarono e per incrementare ancor di più lo sterminio del lupo nella valle gli amministratori furono costretti ad alzare il premio, dalle tre lire il compenso fu aumentato notevolmente fino ad arrivare a 17 lire. La lotta fra l’uomo e lupo continuò nei secoli a venire, tanto che duecento anni dopo troviamo ancora vigente la taglia sul lupo. Difatti dal registro “dell’Offizio dell’entrate” ecco qualche annotazione dei pagamenti eseguiti per la cattura dei lupi. Ad esempio nel 1565 tal Gian Maria di Pellegrino di Bolognana si ritrova in tasca 17 lire suonanti per la cattura di un lupo grosso. L’anno dopo (1566) a Baccio da Castiglione ecco le solite lire ma stavolta per ben sei lupacchiotti, che dire poi di Lentino di Batista e Cesare di Francesco di Eglio che nel 1568 ebbero l’ardire di catturare ben due lupi grossi, naturalmente la taglia venne raddoppiata.

A metter il bastone di traverso a questo bistrattato animale non bastava solamente, come si è visto il vigente Stato, ci si mise purela chiesa: chi non rispettava i precetti di “Sanctae Romanae Ecclesiae” poteva essere attaccato dal lupo, o lui o i suoi greggi e per confermare questo leggiamo una leggenda figlia di quel lontano periodo. La leggenda si intitola semplicemente “Il pastore e il lupo”.

  • C’era un pastore nei pressi di Vagli che viveva sperduto con il suo gregge per le montagne, nessuno mai lo incontrava, scendeva in paese solamente per andare alla messa. In quei tempi lontani i lupi erano un vero flagello per i pastori, ma questo problema non toccava il nostro caro pastore perchè la sua fede  e il suo coraggio erano più che sufficienti per tenerli lontani, quando vedeva un branco di lupi all’orizzonte o intento ad uscire dalle impervie gole montane, ecco che il buon pastorello si inginocchiava e cominciava a pregare e alzando solamente una mano fermava l’avanzata inesorabile dei lupi. Una domenica il pastore non scese in paese per andare alla messa, aveva molte faccende da sbrigare, ma quella notte le pecore si misero a belare a più non posso, egli capì subito che i lupi erano ormai vicini. Salì su un masso e si inginocchiò, ma questa volta l’avanzata dei lupi non si fermava, il pastore capì che non essendo andato alla messa i suoi poteri erano spariti, allora estrasse dalla tasca il suo Rosario, chiese perdono e i lupi immediatamente si ritirarono.

Sul masso dove si inginocchiò ancora oggi si possono vedere le impronte delle ginocchia del pastore. Insomma è dura la vita del lupo, da Cappuccetto Rosso in poi non ha avuto più pace, una pace che credo neanche ai giorni nostri riuscirà ad avere.

Chi è la Befana? Quali sono le sue origini? Ecco tutto quello che dovete sapere

Diciamolo chiaramente, Babbo Natale è un personaggio che ci hanno propinato alcune leggende nordiche riadattate poi dai paesi anglosassoni ed ulteriormente edulcorate nientepopodimeno che dalla Coca Cola (tanto per dire in origine Santa Klaus aveva il proprio abito di colore verde e non l’attuale rosso fiammeggiante imposto dal colosso americano delle bevande gassate).

Per noi garfagnini il Natale era una festa puramente religiosa e nessun bambino per la Santa Natività si aspettava dei doni perchè a questo compito ci pensava la Befana che tutti i piccoli attendevano con un misto di trepidazione e paura. Trepidazione perché era una delle poche, se non l’unica occasione per ricevere regali (seppur modesti). Paura perché se durante l’anno non si erano comportati da buoni e bravi ragazzetti al posto dei regali avrebbero ricevuto del carbone.

La sera del 5 gennaio i bambini andavano a letto non senza aver appeso la calza al caminetto e sopratutto non bisognava dimenticarsi di lasciare un “fascetto” di fieno davanti alla porta di casa per far mangiare il “miccio” (n.d.r:asino) della Befana e anche della legna secca per far scaldare la povera vecchina. Alle cinque del mattino del 6 gennaio le campane cominciavano a suonare a festa e tutti i ragazzi saltavano giù dal letto e correvano a vedere davanti alla porta. Non trovando più nè fieno nè fascine perchè l’asinello aveva mangiato e la Befana si era riscaldata, andavano a scrutare la calza del camino.

 

I doni che ricevevano i nostri nonni erano fatti di una befana povera: un’arancia, al massimo due, nocciole, noci, mele, castagne e fichi secchi e ai bambini benestanti poteva capitare di trovare addirittura una fettina di panforte, ma il pezzo forte (come per tutti i bimbi del mondo) erano i giocattoli. Alle bimbe di solito capitavano bamboline di cencio riempite di segatura,mentre ai maschietti regalavano trottole di legno, animaletti intagliati e sempre a quei pargoli di buona famiglia i famosi soldatini di piombo (vera invidia di tutti i piccoli del paese).

Tutti questi giochi non venivano acquistati nei negozi naturalmente, ma di solito erano opera del babbo o del nonno che in gran segreto li costruivano quando il bimbo la notte andava a dormire. Ma cosa c’era di più bello quando poi arrivava l’ora di mangiare i “befanini”? Nella Garfagnana storica erano i biscotti che le massaie usavano fare per il periodo natalizio, così chiamati perché tradizione vuole che vengano preparati il giorno della Befana. I befanini rimangono i biscotti dei nostri nonni.

Una fabbricazione rustica fatta da cuore e mani contadine; ogni famiglia aveva la sua ricetta, chi metteva più burro, chi più uova, ma quello che li rendeva (e le rende) unici e simpatici è il suo impasto che veniva tagliato con formine di varie figure: cuori, stelle, animali, omini e così via, il tutto ingentilito con guarnizioni colorate.

 

I più piccoli le trovavano dentro la calza, poi le mamme ne preparavano in gran quantità per tutta la famiglia. Scambiarsi i befanini era un rito, l’operazione era affidata ai più piccoli che durante il tragitto non resistendo alla loro bontà per metà se li mangiavano e il resto lo consegnavano agli amici e parenti. Venivano anche regalati alle persone che la sera del 5 gennaio passavano di porta in porta ad annunciare la Befana cantando appunto “le befanate”.

Già “le befanate”. Qui affondiamo le nostre radici ancor più in profondità. Si ha la prima notizia documentata dei canti della befana nella nostra zona a Barga nel 1414 quando si parla dell’Epifania precisamente nel “liber maleficiorum” l’attuale codice penale. In un paragrafo si commina un’ammenda di dieci soldi “per ciascuna persona ardisca, la notte della Befana, di andare alla casa di qualsiasi persona di Barga a dire quelle disoneste parole, le quali sono state dette per l’adietro, sotto pena di soldi dieci, a ribadire per ciascuna persona e per ciascuna volta che la vigilia dell’Epifania canterà quelle brutte cose che si usano da lungo tempo”.

Invece sono canti bellissimi, legati al mondo contadino, canti tradizionali di questua che si eseguono alla vigilia dell’Epifania a partire dall’imbrunire fino a notte. In Garfagnana la tradizione è tutt’oggi viva più che mai. I cantori guidati dal suonatore (accompagnato di solito da fisarmonica o chitarra) precedono di pochi passi la Befana ( che spesso è un uomo travestito da donna perchè anticamente la donna non poteva nè recitare nè mascherarsi) e il befanotto (il consorte della befana) che si avvicina alle porte delle case cominciando di fatto il canto.

 

Il canto della Befana è formato da “stanze” di otto versi ciascuna, si compone in tre parti: un saluto, una parte centrale e una di ringraziamento o di offesa se i cantori non ricevono nessuna offerta. Trattandosi di un rito che affonda le sue radici nel mondo contadino la maledizione va a colpire gli interessi più prossimi della massaia, come il pollaio. Uno dei testi maggiormente diffusi recita infatti: “E se nulla non ci date pregherem per la galline dalle volpi e le faine che vi sian tutte mangiate”. Se poi in casa c’è qualche giovane o meno giovane donna non ancora sposata, l’invettiva si trasferisce su di lei: “E se nulla non ci date via piangendo ce ne andremo la Madonna pregheremo che marito non troviate”.

Ma chi è in “verità” la Befana? Leggenda vuole che i Tre Re Magi stavano andando a Betlemme per rendere omaggio al bambino Gesù. Giunti in prossimità di una casetta decisero di fermarsi per chiedere indicazioni sulla direzione da prendere. Bussarono alla porta e venne ad aprire una vecchietta. I Re Magi chiesero se sapeva la strada per raggiungere Betlemme perché la era nato il Salvatore, ma la vecchia non seppe darle nessuna indicazione. I Re Magi chiesero quindi alla vecchietta di unirsi a loro ma lei rifiutò perché aveva molto lavoro da sbrigare. Dopo che i tre Re se ne furono andati la donna capì che aveva commesso un errore e decise di unirsi a loro per andare a trovare il Bambino Gesù. Ma nonostante li cercasse non riuscì più a trovarli e allora fermò ogni bambino per dargli un regalo nella speranza che questo fosse Gesù Bambino. Così ogni anno la sera dell’Epifania lei si mette alla ricerca di Gesù e si ferma in ogni casa dove c’è un bambino per lasciare un dono.

Il 26 dicembre 1944 iniziò una cruenta battaglia meglio conosciuta come “Tempesta d’inverno”

La guerra non conosce feste, non ha pietà di niente e nessuno e infatti fu così in quella che oggi è comunemente conosciuta come la “Battaglia di Natale”. La storia rammenterà sempre quella data del 26 dicembre come il peggior Natale che la Garfagnana ricordi. Fu un massacro di civili e militari  che cominciò alla mezzanotte in punto del 26 dicembre 1944, battezzata dalle forze dell’asse con il nome in codice “Wintergewitter” in italiano “Tempesta d’inverno”.

L’operazione fu l’unica azione offensiva lanciata congiuntamente dai reparti della Wehrmacht e dall’esercito della Repubblica Sociale nel corso della guerra diretta contro le forze americane della 92a Divisione Buffalo. Fu considerata l’ultima disperata azione offensiva, ma prima però di raccontare gli eventi facciamo velocemente un introduzione per spiegare le cause che portarono a questa famosa battaglia.

Le forze alleate comandate dai generali Alexander e Clark avevano intenzione di sfondare la Linea Gotica nei pressi di Bologna per poi entrare velocemente in tutta la Pianura Padana, ma servizi di controspionaggio informarono a quanto pare le forze tedesche, che a loro volta pensarono ad un attacco nella zona occidentale della Linea considerato un settore fino a quei giorni tranquillo e quindi debolmente presidiato dai reparti americani, con lo scopo di allentare la pressione in quel settore di fronte che avrebbe permesso come detto prima alle forze alleate di entrare a Bologna e di “inondare” tutto il nord Italia.

Il piano incontrò pieno appoggio da parte di Mussolini e del comandante della RSI il maresciallo Graziani, anzi la missione aveva un obiettivo in più lo sfondamento del fronte e la riconquista di Lucca e Livorno. Incominciarono così intorno al 10 dicembre le prime ricognizioni tedesche per sondare il terreno contro le postazioni nemiche tanto per iniziare ad indebolire il fronte e come zona d’attacco fu scelta in maniera definitiva la Valle del Serchio e la Garfagnana. Le postazioni della 92a Buffalo,composta per la maggioranza da afroamericani erano giudicate un obiettivo facile per l’inesperienza di quelli che dai loro stessi comandanti erano considerati soldati di seconda scelta in un’America a quei tempi razzista e segregazionista.

Ormai era tutto deciso e l’attacco fu affidato al comando del generale tedesco Otto Fretter Pico, che fu posto al comando della 148a Infanterie-Division (di cui faceva parte anche la Divisione Alpina Monterosa). Per la data dell’attacco fu scelta la notte fra il 25 e il 26 dicembre onde sfruttare la tregua natalizia. “Tempesta d’inverno” aveva così inizio. L’offensiva scattò come detto immediatamente allo scoccare della mezzanotte del 26 dicembre senza fuoco preparatorio per mantenere fino all’ultimo l’effetto sorpresa. La prima a muoversi fu la terza colonna composta da reparti di “gebirgsjager” (truppe da montagna tedesche) e l’attacco si sviluppo sul lato orientale del Serchio.

I primi scontri furono a Sommocolonia (comune di Barga), iniziò tutto con lo sparo nella notte di un razzo verde e rosso per comunicare l’inizio dell’attacco alle altre due colonne più in basso, proseguì con la distruzione e l’occupazione del paese, terminata in serata con oltre 130 caduti tra tedeschi, americani partigiani e civili. Si racconta di episodi particolarmente violenti in paese, testimoni raccontavano dei primi paesani morti. I fatti di sangue avvennero al mattino presto. Alle 7 i tedeschi irrompono nelle prime case del paese, in via della Bulitoia, e in una abitazione prima del piazzaletto Mario Cassettari di anni 29 viene ucciso sulla porta di casa da un soldato che lo centra con un colpo di fucile. Nella casa accanto un altro soldato spara inutilmente una lunga raffica di mitra attraverso una porta chiusa. I colpi raggiungono il bambino Giuliano Nardini di 4 anni che muore, in braccio alla mamma; altri 7 proiettili feriscono gravemente il fratellino Nardino di anni 11. Un partigiano, Giocondo Gonnella di Tiglio viene sorpreso in una casa in Piazza San Rocco, e ucciso. Verrà gettato dalla finestra.

Nel frattempo “Wintergewitter” continuava, il battaglione “Mittenwald” aveva già messo in sicurezza tutto il fianco sinistro occupando Bebbio e dopo aver respinto un flebile attacco americano aprirono un decisivo varco anche verso destra raggiungendo anche la linea compresa tra Barga e Coreglia. L’operazione si stava rivelando un vero successo per le forze dell’asse. La mattina del 27 si mossero anche i reparti italiani della Monterosa che attaccarono le posizioni americane a sud di Castelnuovo, i reparti americani iniziarono una ritirata a rotta di collo verso sud. Entro sera gli italiani presero Gallicano, mentre dall’altro lato i tedeschi entrarono a Fornaci. Ormai il fronte era sfondato per oltre 20 chilometri. La mattina seguente l’avanzata continuava i tedeschi presero Calavorno, gli italiani Bolognana.

Ma come si sa gli americani non sono certo i tipi che stanno a guardare e la 5a armata venne in soccorso, elementi della 1a divisione affluirono nella zona dello sfondamento aiutati ancora da ulteriori rinforzi dell’8a Divisione Indiana e dal massiccio supporto fornito dai cacciabombardieri Thunderbolt della 22nd Tactical Air Command che fra il 27 e il 29 dicembre compirono sopra la valle ben quattromila missioni con ben ottocento aerei. Il comandante germanico Fretter Pico per mancanza di rinforzi dette l’ordine di ritornare nelle postazioni di partenza nonostante che il maresciallo Graziani insistesse nell’avanzare. Nei due giorni successivi i soldati tedeschi ed italiani ripresero le loro posizioni di cinque giorni prima come niente fosse successo in barba allo spreco di vite umane. Oltre 2000 furono i morti complessivi in quei giorni. In pratica l’operazione “Wintergewitter” non ebbe nessun risultato strategico, il terreno conquistato da Fretter Pico non poteva essere tenuto contro la soverchiante forza americana. In compenso gli italo tedeschi ottennero un buon successo tattico impossessandosi di armi ed equipaggiamenti e di oltre 250 prigionieri, inoltre spostando le truppe su un settore secondario ritardarono l’offensiva alleata su Bologna. Pesanti critiche furono addossate agli afroamericani della 92a divisione Buffalo per lo sbandamento avuto durante l’offensiva. Le truppe furono spostate in una zona di settore tranquilla e riorganizzata.

Voglio chiudere per ben sintetizzare tutto con un brano del libro “Barga paese come tanti” di Bruno Sereni che ricordava quello che fu dopo quei terribili giorni:
“…la camionetta del signor Governatore ( il comandante inglese) corre in su e in giù- … la tragedia di questa povera gente lo interessa dal punto di vista fotografico. Di quando in quando si ferma a prendere una serie di istantanee che un giorno farà vedere ai suoi amici in qualche “club dei Greenwich Village”. Che cosa rappresenta dopotutto questa fuga nel quadro della guerra per il Comando Alleato? La semplice perdita di qualche caposaldo che si riprenderà quando si vuole…”

Natale di Guerra in Garfagnana

Ci sono delle storie che per tutta la vita rimarranno impresse nella nostra memoria. Sono avvenimenti lontani settant’anni quelli che vi andrò a raccontare e durante questo periodo di festività natalizie mi tornano puntualmente nella testa.

Racconti a me cari perchè ascoltati in prima persona, sono i ricordi che ogni tanto la mia mamma riviveva, ricordi che riguardano un lontano Natale di guerra, fatto di cose semplici, di valori, di fratellanza. Sembra proprio una storia uscita dalle pagine di qualche romanzo di Charles Dickens, invece è una storia vera e la mamma iniziava la narrazione sempre nella solita maniera:

“Questo è un fatto che accadde veramente tanto tempo fa, in un periodo in cui gli uomini stavano con le armi in mano e si battevano tutti ferocemente”.

La mamma volutamente non usava la parola guerra, aveva quasi una specie di repulsione per quella parola, lei l’aveva vissuta sulla propria pelle e al tempo dei fatti in quel tragico 1944 era una bambina di otto anni che decenni dopo raccontava al suo bambino di quell’anomalo Natale. Io la guardavo con aria perplessa, quasi incredula, raccontava di soldati neri, di freddo, di polenta e pensare che ancora mi sembra di sentire la sua voce:

“Ricordo che aveva nevicato di fresco ed ero tutta contenta perchè l’indomani non avrei dovuto andare a scuola, dato che era la vigilia di Natale. Era un inverno rigido quello, come poche altre volte. Il vento gelido tagliava tutta la strada e la notte stava per calare, ma la felicità superava i brividi del gelo e pensavo al presepio che avrei fatto con mia sorella, alle buone cose che avrebbe preparato la mamma e cercavo di individuare cosa ci avrebbe portato in dono il Bambino Gesù e mentre la mia testa era pervasa da mille pensieri mi ritrovai davanti casa.

La casa dove abitavo era confinante con un’altra casa che l’esercito tedesco prima, e quello americano dopo usavano da rimessa e da garage e proprio mentre m’infilavo nella porta di casa vidi che sul cancello della “casa rimessa” c’erano due soldati di guardia intirizziti, ed un terzo era appoggiato al muro caldo del forno a legna che era nell’aia dove qualche ora prima le donne del vicinato avevano cotto il pane e preparato qualche dolce per il Santo Natale. Il soldato mi guardò mentre entravo in casa e lo vidi sospirare, una volta entrata lo spiai dalla finestra per pura curiosità. Erano le prime volte che vedevo dei soldati e questi per il mio stupore erano per giunta di colore e io un uomo di colore fino a quei giorni non sapevo neanche come era fatto. Ce li avevano descritti sui manifesti come dei selvaggi, come uomini pericolosi, da diffidare sempre e comunque, da tenere lontani insomma (leggi: http://paolomarzi.blogspot.it92a-divisione-buffalo), ma io di tutto questo non vedevo niente.

Manifesto razziale fascista sui soldati neri americani

Vedevo che mangiavano, parlavano e sorridevano come tutti quelli che conoscevo, ma quel giorno in quell’uomo vidi di più, constatai una figura stanca e smunta e intanto che lo osservavo venne colpito da una tosse convulsa e mentre si copriva la bocca con la mano che reggeva il fucile, notai brillare la sua fede d’oro. Smisi così di guardarlo ed entrai in cucina, fui subito assalita da mia sorella anche lei tutta euforica. Mi raccontava del presepe e sopratutto del dolce del Natale che la mamma aveva preparato con “farina vera”. Dimenticai l’americano visto e mi dedicai la sera stessa e il giorno successivo alle mille cose della Vigilia. Finchè la sera del 24, tutti allegri, ci mettemmo a tavola. Non vedevo l’ora di mangiare, la cena era costituita da piatti speciali: polenta e baccalà, cavolo nero e fagioli bianchi. Dopo cena era il momento più bello quando il babbo tirava fuori i dolci e dava un goccino di vino dolce a tutti, compresi i bimbi, una volta servito tutti faceva così il consueto brindisi: “In una notte come questa nacque il Redentore. Alleluja”.

Alzò il suo bicchiere e mentre lo alzava l’anello che aveva al dito brillò. Questo mi fece ricordare il soldato americano nero che tossiva vicino al forno, allora mi domandai: come mai aveva un anello uguale a quello del mio babbo? Ma certo! Che sciocca! Lo aveva perchè tutti gli uomini sposati ce l’hanno… e tutti gli uomini sposati hanno dei bimbi. Chissà dove aveva i suoi bambini l’americano e quanto soffriva a non essere loro vicino. Allora mi accorsi che solo io non avevo bevuto in onore al Natale e che tutti mi guardavano perplessi. Dissi loro ciò che avevo pensato e quello che avevo visto un giorno prima. Il babbo mi guardò un po’ serio, non è che fu molto affascinato dalle mie parole e poi con quello che si diceva… La carità cristiana, però, prevalse su tutto, in fondo quei soldati non ci avevano mai fatto niente di male e allora il babbo disse: “vai a chiamarlo se c’è ancora”.

C’era ancora, ma non volle salire. Rimase ancora vicino al forno a scaldarsi e a fare il suo dovere di guardia, poi sicuramente non capiva l’italiano e non comprendeva come mai lo volessi far salire in casa. Tornai in cucina molto delusa, ma mio padre aveva già immaginato tutto e mi porse un piatto con il dolce della mamma ed un bicchiere di vino. Con queste cose mi presentai al soldato dicendogli: “Buon Natale!” Mi guardò sorpreso, poi sorrise e mi disse qualcosa nella sua lingua e mentre prendeva i doni mi fece una carezza proprio come il mio babbo. Si allontanò e vidi che divideva i dolci con i suoi commilitoni. Ripresi poi il piatto e il bicchiere vuoto e tornai su a raccontare com’era andata. Il babbo stette a sentire e mentre attizzava il fuoco borbottò emozionato: “Bene, bene questo è proprio un buon Natale”.

I fatti sopra citati si svolsero a Gallicano. I giorni che seguiranno a questi accadimenti saranno ancora più tristi e drammatici. Di lì a poche ore comincerà in Garfagnana la famosa Battaglia di Natale (per saperne di più: http://paolomarzi.blogspot.it//il-piu-tragico-natale-). Gallicano (come molti altri paesi) fu colpito da una serie di bombardamenti alleati devastanti. Quei giorni di festa del 1944 verranno ricordati come il peggior Natale di cui la Garfagnana abbia memoria.

Da parte mia un sincero augurio di Buone Feste a tutti i miei lettori, nella speranza che questi ricordi rimangano per sempre solo e semplici ricordi, da non dimenticare e di cui fare tesoro.