Non voglio essere irriverente né blasfemo, ma l’elettrizzante magia che coinvolge buona parte degli aspetti del Natale è legata al mito, alla tradizione e in molti, moltissimi casi alla leggenda.

Già la stessa data in cui si festeggia la venuta al mondo del Salvatore, rientra proprio in quest’ottica. La Bibbia non dice nulla di specifico circa il mese o il giorno in cui nacque Gesù. Nella scelta del 25 dicembre come giorno di Natale, influì il calendario civile romano, che alla fine del III° secolo celebrava in quel giorno il solstizio invernale, il cosiddetto “sole invitto”. Da quella data, le giornate si facevano più lunghe e metaforicamente parlando, in questo contesto, alla nascita del Cristo gli venne attribuito medesimo significato, il significato della Luce che nasce per sconfiggere le tenebre, un nuovo sole di giustizia e verità.

Questo è l’esempio più alto, più significativo, ma ne possiamo citare altri, meno sintomatici, ma utili per capire il concetto. E se, come nella circostanza della nascita di Gesù, il paganesimo si è fatto cristianesimo, nel caso di Babbo Natale è successo il contrario. Sì, perché Babbo Natale vide origine in San Nicola, santo vissuto nel IV secolo e festeggiato il 6 dicembre.

Secondo la tradizione, San Nicola regalò una dote a tre fanciulle povere, perché potessero andare in sposa, invece di darsi alla prostituzione, mentre in un’altra occasione salvò tre bambini. Così nel Medioevo prese usanza, nel giorno in cui si festeggia il santo, di commemorare tutti questi episodi, facendo piccoli regali ai bimbi.

Con il passare dei secoli, in particolar modo nel Nord Europa, si appropriarono di questo commemorazione, trasformando San Nicola in Samiklaus, Sinterclaus o nel nome a noi più conosciuto di Santa Claus. Di lì il passo fu breve, i festeggiamenti si spostarono alla festa più vicina e più importante: il Natale. Si potrebbe continuare ancora e osservare che anche l’albero di Natale nasce dalle credenze popolari nordiche, così come le palline con cui viene decorato videro la loro genesi nella leggenda. Insomma, tutto quello che è legato al Natale è ammantato di leggenda, favola e allegoria e a tutto questo non si poteva sottrarre la Garfagnana, una delle culle di questi tradizionali racconti. Seguitemi allora per un viaggio in alcune delle leggende di Natale della Garfagnana.

Lo zinebro

Ginepro, mai con l’abete, nemmeno con il pino, solamente con lo zinepro (come si dice in dialetto). E sapete il perché? Perché quando San Giuseppe e la Madonna scapparono per andare in Egitto e il perfido Erode dava la caccia a tutti i bambini, fu proprio lo zinepro che salvò Gesù, comportandosi meglio delle altre piante. Era una notte buia e tempestosa, pioveva a più non posso, e dopo la pioggia anche la neve. Il povero San Giuseppe non sapeva come fare a riparare dal maltempo sé stesso e Maria, non c’era l’ombra di una capanna, nemmanco di un metato, di fronte a se aveva solamente selve.

Videro allora una ginestra e gli chiesero riparo, la ginestra stizzita le mandò via. Gambe in spalla allora, finché non videro una bella scopa (n.d.r: un’erica), alta e frondosa, all’ennesima pietosa richiesta di riparo la scopa ebbe a dire: “Surtitimi di torno, io nun ne vo’ sapé di voialtri. E poi se per disgrazia passa Erode e vi trova qui sotto mi brugia anco me. Surtitimi di torno v’ho ditto!”. Intanto continuava a nevicare copiosamente e ai due poveri sposi non rimaneva altro che cercare un albero benevolo. La stanchezza però oramai stava vincendo, fino a che non scorsero uno zinepro a cui chiesero riparo. “Vinite, vinite pure”, gli rispose e per ripararli meglio e perché Erode non li trovasse protese i suoi aghi in avanti. “Cusì se viene Erode si punge tutto”. Il malvagio tiranno passò, ma non li trovò. Il mattino dopo aveva smesso di nevicare e finalmente San Giuseppe e la Madonna ripresero la strada per l’Egitto. Da quel giorno per i garfagnini lo zinepro diventò il loro albero di Natale.

I re magi sulla Pania

Passano sopra la Pania, sui loro cammelli alati. Veleggiando sui nostri monti si dirigono verso Betlemme, guidati da una stella maestra. Quello che è certo che la strada è lunga da fare, il percorso è improbo e le Apuane sono uno scoglio duro da superare.

Quello è proprio il periodo del maltempo, pioggia e bufere di neve sono all’ordine del giorno e i venti che spirano dal mare creano un muro di nebbia invalicabile, infatti quando i tre Re passano proprio sulla vetta della Pania della Croce i cammelli repentinamente si abbassano dirigendosi verso il monte, prendendo da lì lo slancio verso il mare. Nel punto esatto dove gli zoccoli dei quadrupedi toccano la cima, lasciano l’impronta e nel cielo uno sfavillio di scintille, che vengono giù come luccicanti stelle cadenti.

San Pellegrino e Bertone: Il mugnaio che non voleva festeggiare il Natale

C’è una località vicino a Castiglione che è detta “Il Mulinaccio”, questo dispregiativo ha un perché. All’epoca, in questa località sorgeva un mulino che prendeva le acque dal vicino torrente chiamato “Butrion”. Il padrone era il mugnaio Bertone, uomo infido, antipatico e pure cattivo, dal momento che ad ogni piè sospinto bestemmiava Nostro Signore. Dal cielo l’arcangelo Gabriele chiedeva vendetta, ma il Signore visto l’intercedere di San Pellegrino chiudeva sempre un occhio, chiedendo però in cambio un’opera buona del mugnaio irrispettoso. L’occasione di redenzione l’ebbe la notte di Natale.

Mulino di Castiglione Garfagnana

Tutti i paesani si stavano preparando per andare alla messa, le campane stavano suonando, ma Bertone non ne voleva sapere di andare a messa e per dispetto e per avidità dette il via alle rumorose macine del mulino e cominciò a lavorare. All’improvviso un sinistro rumore echeggiò da sopra il suo mulino, dalla montagna si staccò un grosso masso, che sollecitato dalle ali dell’arcangelo precipitò sulla costruzione, schiacciando Bertone. Si racconta che da quei tempi, proprio la notte di Natale chi passa da quelle parti, sente ancora strani rumori, come lo strepitio di catene e il girar di macine.

Il ceppo di Natale

In Garfagnana, dove il retaggio contadino è ancora sentito, le tradizioni natalizie vengono tenute vive affinché non venga dimenticato l’insegnamento degli avi. Questo è il caso del “ceppo di Natale”, che di leggenda non ha niente, ma rientra nelle nostre care, vecchie e dimenticate tradizioni. Il ceppo, non è altro che un grosso ciocco di legno messo ad ardere nei camini alla vigilia di Natale. Il grosso pezzo di legno, alcuni mesi prima veniva già adocchiato dal contadino, una volta scelto accuratamente era messo ad asciugare, pronto per essere arso davanti alla famiglia riunita.

ceppo di Natale

La particolarità era che questo grosso ciocco (talvolta talmente grande da essere trasportato da due persone), doveva ardere fino alla sera di Santo Stefano, in alcune famiglie addirittura fino alla sera del capodanno. Per durare così a lungo venivano usati alcuni stratagemmi, come ungerlo con il grasso di maiale o coprirlo di cenere perchè la brace non lo bruciasse completamente. Di solito veniva chiamato pure il prete a benedire il ceppo, dato che il suo significato rientrava nella sfera religiosa. Il suo calore doveva servire per accogliere e riscaldare la venuta di Gesù Bambino nella casa. Ma quest’usanza vide la sua origine in tempi lontanissimi e si rifaceva probabilmente al significato puramente pagano che si dava al solstizio d’inverno: un fuoco sacro, in collegamento diretto con il sole. Tant’è che proprio San Bernardino da Siena deplorava questa tradizione.

Siamo a Firenze nel 1424 e queste furono le sue parole: “Per la natività di nostro Signore Gesù Cristo in molti luoghi si fa tanto onore al ceppo. Dalli ben bere! Dalli mangiare! El maggiore della casa il pone suso e falli dare denari e frasche. Perché è così in Natale rinnegata la fede e perché so’ convertite le feste di Dio in quelle del diavolo? Si vuole mettere el ceppo nel fuoco et che sia l’uomo della casa quello che vel mette, coloro i quali pongono il ceppo al fuoco la vigilia di Natale, conservano poi del carbone alcuni contro il cattivo tempo pongono fuori della propria casa l’avanzo del ceppo bruciato a Natale”.

San Bernardino il predicatore

Sì, perché esiste ancora l’usanza di conservare le sue ceneri, a quanto pare hanno proprietà magiche e di buon augurio: possono essere sparse nei campi per avere un buon raccolto, favoriscono la fertilità degli animali e proteggono dai fulmini. Leggende e usanze queste, che fanno parte di un bagaglio culturale antico, che si intreccia in un singolare mix di sacro e profano, ricordandoci che non è importante cosa trovi sotto l’albero di Natale, ma chi trovi intorno.

Oggi al massimo rimandiamo una gita in montagna o qualche lavoretto domestico, ma una volta il meteo era cosa ben più seria

Una stagione più o meno bella, infatti, metteva a repentaglio il sostentamento della famiglia. In società contadine, come quella garfagnina, dal meteo dipendevano le colture, i raccolti e una stagione inclemente poteva compromettere veramente il benessere familiare. Per di più, per evitare rovine e danni alle coltivazioni c’era una saggia cura del territorio, ci si preoccupava di ripulire il sottobosco, di sistemare i sentieri, di incanalare le acque piovane, di ripristinare i muretti a secco caduti, insomma proprio il contrario di quello che succede oggi.

Figurarsi che oggi sarebbe tutto più facile per quei contadini garfagnini del tempo che fu, con le previsioni meteo a lunga scadenza ci sarebbe modo di organizzarsi e di gestire meglio tutta la situazione. Ma allora come facevano i nostri avi a prevedere il tempo? Ci si affidava a tecniche puramente empiriche, cioè fondate su esperienza diretta e pratica. Una tecnica fra le più comuni era affidarsi alle Calende, questa pratica variava da regione a regione. La Toscana contava le Calende in questo modo: i primi dodici giorni del mese di gennaio si dovevano appuntare su un foglio le condizioni atmosferiche, ogni giorno dei dodici rappresentava il mese dell’anno (il primo giorno gennaio, il secondo febbraio e così via).

Il meteo registrato nel rispettivo giorno, sarebbe corrisposto al tempo che avrebbe fatto in quel mese (ad esempio: se nel terzo giorno di gennaio aveva piovuto, anche marzo sarebbe stato piovoso). Naturalmente questo metodo non ha nessuna base scientifica, eppure ancora oggi è usato da chi tramanda questo folclore, sostenendo poi che nella maggior parte dei casi si ha un riscontro positivo con la realtà. Non ci si affidava però solo alle Calende, ma ad altri metodi per così dire naturali, quello della lettura dei semi di cachi era uno dei più originali e adesso completamente in disuso.

Questo sistema consentiva però di conoscere il meteo per una sola stagione: l’inverno, era infatti la stagione più pericolosa per gli equilibri della natura e un inverno più o meno mite avrebbe fatto da viatico per raccolti più o meno buoni. In ogni caso questa operazione con i semi di cachi era molto semplice, bisognava prendere un seme e dividerlo in due orizzontalmente e osservare la forma del suo virgulto, se era a cucchiaio sarebbe caduta molta neve mista a pioggia, a forma di forchetta la neve sarebbe stata poca e l’inverno mite, se a forma di coltello, l’inverno sarebbe stato pungente, con venti forti e gelidi.

Esisteva anche un altro arcaico metodo che consisteva nel tagliare una cipolla in 12 spicchi, ogni spicchio andava salato e poi (nella notte fra il 24 e il 25 gennaio) andavano posti su un davanzale ad asciugare. Se il sale si fosse sciolto parzialmente il tempo sarebbe stato variabile, se completamente significava pioggia o neve e se il sale fosse rimasto intatto sarebbe stato bel tempo. L’operazione andava ripetuta tre volte.

Come abbiamo visto le condizioni meteo hanno influito molto e in tutti i sensi nella vita dei garfagnini, da sempre popolo dedito alle coltivazioni e all’allevamento, legato quindi a filo doppio con gli elementi della natura. Infatti il suo peso è stato talmente rilevante che molte parole del dialetto garfagnino sono legate proprio alle condizioni del tempo. Parole talvolta dall’etimologia inspiegabile e misteriosa e per questo ancora più proprie e legate al territorio.

Giornate come questa che vedo fuori dalla finestra sono giornate “torbate”, e da stamani non fa altro che “sbruscinà” (per i non garfagnini la frase significa che: la giornata è nuvolosa e da stamani non fa altro che piovigginare). Ma quante volte dai nostri nonni abbiamo sentito la parola “balfoia”: quando la neve è trasportata dal vento, o sennò quando il vento fa i mulinelli ed è un continuo turbinio di foglie secche, ebbene, in questo caso è il “baffardel”. Ancora a proposito di vento il “sinibbio” o il “sinibro” è quel vento pungente che entra nelle ossa, tipico dei mesi di gennaio e di febbraio. Propria dei medesimi mesi è la brina, in garfagnino è detta “la pruina”. Esiste poi tutta una serie di parole legate alla neve: come abbiamo già letto “balfoia” è una di quelle, la stessa neve in dialetto è detta “la gneva” e quando questa neve diventa poltiglia si dice che è “paltroffia”.

 

La “cecajola” invece è il vento che porterà la neve, prima di trasformarsi in una vera e propria “buriana”: una tempesta di neve. La maggior parte di questi termini legati al tempo è “spostata” sulla stagione invernale e in effetti sono poche le parole legate alla bella stagione: il vocabolo “asciuttore”, indica proprio la siccità delle campagne e la “fagonza” è il caldo opprimente che toglie il respiro.

Non solo semplici parole garfagnine sono legate al meteo, ma anche dei veri e propri detti, figli di una saggezza popolare propriamente tipica della nostra valle, per ogni mese esisteva più di un proverbio. A Gennaio era tipico quello che diceva “Se Gennaio mette l’erba ,te, villan, il fien asserba”: se questo mese sarà clemente per il contadino sarebbe bene falciare subito l’erba e conservarla per i mesi successivi. “La pioggia di febbraio fa empì il granaio”, “Luna Marzolina fa vinì l’insalatina”.

“Chi ha un ciocchetto nel fienile lo asserbi per marzo e aprile”: Marzo ed Aprile in Garfagnana da un punto di vista meteoroligico possono riservare ancora delle sorprese e se è avanzato qualche ciocco di legna sicuramente tornerà utile per quel periodo.”Fra maggio e giugno nasce un fungio”. “Quando piove al solleon, la castagna edè un guscion”: quando piove troppo nell’estate, probabilmente la castagna che maturerà ad ottobre sarà povera di polpa.

 

“La pioggia di settembre pogo acquista e nulla rende”: la pioggia in questo mese niente dà alle coltivazioni, anzi, rischia di danneggiare la maturazione dell’uva.
Potrei continuare ancora per molto, con parole e proverbi garfagnini a conferma del ragguardevole significato che avevano le condizioni meteo su una cultura contadina come la nostra. La solita cultura contadina che sul tempo ci ha insegnato la regola principale: è la natura che comanda, che dispone e impone quello che vuole, noi siamo qua sotto e bene o male, niente ci possiamo fare.

Denigrato, offeso, screditato e spesso infamato…“Sei duro come un mulo !”

Così si dice quando ci si vuol riferire ad una persona cocciuta e ostinata, o quando si vuol parlare di un individuo ricco caduto in disgrazia il modo di dire è “ha preso il calcio del mulo”. Insomma una miriade di espressioni che da tempo immemore hanno condannato il povero mulo ad essere considerato uno fra gli esseri più stupidi e poco considerati di tutto il regno animale. Eppure proprio lui ha segnato la vita dell’uomo come pochi altri animali. Già nell’antica Illiria il mulo era diffuso ed allevato dai contadini del luogo. Nello stesso tempo la sua utilità si diffuse ben presto in tutte le zone del Mediterraneo, nell’Africa e in tutti i territori circostanti, arrivando perfino a colonizzare il Nuovo Mondo.

La sua robustezza, l’adattabilità, le sue poche pretese (se non un po’ di fieno e di biada) e la difficoltà con cui era vittima di malattie lo fecero diventare un compagno inseparabile dell’uomo. Il meglio di sé lo offrì nei due conflitti mondiali. Amico indivisibile del soldato già nella I Guerra Mondiale, fino a dopo gli Anni ’40 questo animale da soma sarà parte integrante ed insostituibile di tutti gli eserciti. In ogni reparto il mulo mostrò il suo valore e anche per le truppe del nostro paese divenne un aiuto notevole. “Soldato a quattro zampe” era considerato questo prezioso animale che durante le dure battaglie era in grado di donare il cuore ai propri compagni umani i quali, a loro volta, si affezionavano a tal punto al loro mulo da piangerne la morte, come avrebbero fatto per qualsiasi altro commilitone.

D’altronde la sua rusticità, la resistenza e la capacità incredibile di poter affrontare con tranquillità anche i sentieri di montagna più impervi, lo avevano reso indispensabile per gli spostamenti dei soldati di montagna. Basti pensare che un solo mulo era in grado di trasportare il carico di tre uomini lungo salite impervie e senza mai dare un segno di cedimento.

Proprio per queste sue arcaiche caratteristiche divenne il protagonista assoluto di uno dei mestieri più antichi di tutta la Garfagnana: il mestiere del mulattiere. Un’antico lavoro questo che raccoglieva svariate mansioni ed incarichi. Il lavoro primario del mulattiere consisteva nel trasportare la legna, ma non solo, il mulattiere aveva anche il compito di fare il tassista, “il postino” (recapitare lettere o messaggi da un paese ad un altro), nonché scambiare merci e rifornire le botteghe dei paeselli sperduti per la montagna garfagnina.

Già la montagna… Ecco, un altro merito che va a coloro che intrapresero questo mestiere fu proprio quello di anticipare lo sviluppo delle attuali reti stradali nella valle, furono proprio i mulattieri a creare nuove strade e nuovi sentieri per le montagne nostrane, seguendo stretti e ripidi percorsi, attraversando fiumi e valloni, valicando passi montani, il mulattiere arrivava dappertutto creando di fatto nuovi viottoli che con il tempo diventarono vere e proprie strade. Quelli che ancora oggi sono rimasti sentieri sono ancora quei primitivi cammini che portano il nome di “strade mulattiere”. Antiche, antichissime oserei dire, queste vie, tant’è che in tempo di dogane il mulattiere ne inventava e ne creava ancora di nuove, cercando di evitare così gli esattori preposti al controllo delle strade, eludendo in questo modo il pagamento dei dazi sulla merce che trasportava.

Anche da un punto di vista puramente sociale l’apporto dei mulattieri fu fondamentale nella crescita della vecchia Garfagnana. Loro era il compito di trasportare la legna che sarebbe servita poi a fare le traversine della tanto sospirata linea ferroviaria Lucca- Aulla (n.d.r:primi anni del 1900), sempre merito loro era se i forni dei nostri paesi venivano riforniti di legna da ardere per fare il pane che avrebbe sfamato i garfagnini. Lavoro duro questo, l’approvvigionamento dei forni doveva essere costante, per la cottura del pane servivano una dozzina di fascine al giorno e lo sforzo del mulattiere veniva ripagato dal fornaio con quel pane. E sempre loro era il merito di trasportare neve e ghiaccio dalle Apuane per mantenere fresche le vivande dei commercianti che avevano il negozio a valle. Non da meno fu il loro apporto (quando arrivò poi la ferrovia) nel trasportare dalla stazione i primi villeggianti nei luoghi di vacanze.

Quello che poi si sobbarcava però tutti questi pesi era il mulo, che nonostante ciò veniva tenuto dallo stesso mulattiere in maniera impeccabile, costantemente ben curato, pulito e nutrito. Il mulattiere prestava attenzione e cura verso il mulo, quest’ultimo era una risorsa e il sostentamento per la famiglia. Quando il mulo per svariati motivi veniva a mancare era un vero e proprio dramma! L’animale veniva preparato con cura per il trasporto: si cercava di mettere la paglia sotto la sella per evitare la formazione di piaghe da decubito sul suo dorso, il pelo era sempre ben strigliato e pulito quotidianamente, la criniera veniva accorciata, gli zoccoli curati, si poneva anche un telo impermeabile arrotolato per coprirlo in caso di pioggia. A volte poteva succedere che la bestia si azzoppasse o si ferisse ed era compito del mulattiere curarlo preparando una miscela di olio bollito e cenere di paglia per cicatrizzare.

Se l’animale aveva un problema alle gengive e non poteva mangiare era premura pulirle con un legno appuntito, così che l’infezione non creasse danno. D’altra parte lo sforzo che doveva fare era enorme e la sua cura era indispensabile. Il carico per ogni bestia era circa di due quintali, e il carico dei muli era un’operazione che richiedeva una sequenza di complesse azioni: bisognava infatti valutare ad occhio quanta legna o quanta merce poteva trasportare un dato animale (il peso variava se l’animale era giovane o adulto), e inoltre c’era da bilanciare i pesi sui fianchi del mulo stesso, sistemare bene la legna e la merce in modo che non cadesse a terra.

Nel caso in cui l’animale trasportasse legna, l’arte sopraffina era il modo in cui veniva legata la massa. Il nodo veniva fatto in modo che con un semplice strattone della corda tutto il carico cadesse ai fianchi dell’animale. Insomma un mestiere antico quanto la nostra stessa Valle e a quanto pare in tutto questo lungo arco di tempo la Garfagnana ebbe fra la sua gente proprio il “Re dei mulattieri”. Così si diceva da queste parti, chi si era aggiudicato questo fittizio titolo non se l’era aggiudicato senza un valido motivo. Secondo “vox populi”, lui e il suo mulo avevano compiuto (a piedi) ben quattro volte il giro del mondo.

Tale calcolo venne fatto dai paesani, dal momento che, tutti i giorni che Cristo mise in terra per ben 40 anni (dal 1915 al 1955), questa persona percorse quotidianamente il tratto San Pellegrinetto – Gallicano. Tutto questo bastava ed avanzava per concedergli cotanto titolo onorifico. La sua “maestà” si chiamava Oliviero Mancini, nato nel 1905 nel suddetto paesello nel comune di Fabbriche di Vergemoli. Iniziò il lavoro di mulattiere sostituendo il fratello Modesto (che gestiva la bottega di famiglia), morto durante la prima guerra mondiale. Al tempo a San Pellegrinetto gli abitanti erano ancora numerosi e le strade (purtroppo) ancora inesistenti, quindi toccava ad Oliviero partire prima dell’alba dal piccolo borgo e giungere a Gallicano per rifornire la bottega di famiglia e conseguentemente garantire sussistenza a tutto il paese.

Partiva alla testa di tre muli (ne possedeva 18), gli animali erano carichi di legna, frutti di bosco, suini macellati, panetti di burro, merce che una volta arrivata a Gallicano scambiava con altra ancora. Si raccontava che il suo arrivo, verso le dieci del mattino, era annunciato dallo schioccar di frusta, un suono di festa che faceva accorre tutti i bimbi in piazza Vittorio Emanuele II, non mancava nemmeno l’occasione che questi bimbi facessero un giro a cavalcioni del mulo. Verso le 15 del pomeriggio, dopo essere passato in trattoria, bevuto “du’ bicchierotti di rosso” e fatto una partitina a briscola, Oliviero, all’ennesimo suono delle fruste salutava e ripartiva con i muli carichi di merce nuova per il lontano paesello, che raggiungeva solamente quando era già buio.

Antichi mestieri, antichi modi di vivere. Storie che ci sembrano uscite da libri di fantasia, racconti talmente incredibili che quasi sembra che non siano mai esistiti. Provate a leggere questo articolo ad un bambino, vi guarderà negli occhi e vi ascolterà come se stesse ascoltando una favola. Ma ditegli che una favola non è, è storia vera, storia della nostra Garfagnana.

Isola Santa Garfagnana

Sulla SP13, la strada provinciale che da Castelnuovo si snoda verso le spiagge versiliesi, i panorami e la bellezza del paesaggio rendono piacevole ed interessante il transito, specialmente quando ad un certo punto, immerso nel verde ombroso, si vede spuntare uno sparuto gruppo di case con il tetto in ardesia.

Un vero gioiellino incastonato tra le montagne garfagnine, uno smeraldo posto fra i castagni e il suo verdissimo lago, questa è l’Isola Santa (nel comune di Careggine). Vale la pena di essere raccontata la storia per le sue particolarità, alcune note ed altre forse un po’ meno. Per esempio qui, come sul lago di Vagli (Fabbriche di Careggine) abbiamo un paese sommerso (o meglio semi- sommerso).

Andiamo per gradi,però, e cominciamo dal lontano 1260 quando si hanno le prime notizie scritte sull’Isola Santa riguardanti una tassa (tanto per cambiare) pro-crociate di lire 80. Certamente la sua nascita risale a molto tempo prima. Il borgo poggia sulle rovine di un antico “hospitale” chiamato “l’hospitale di San Jacopo” (convertito nel 1608 a chiesa parrocchiale che porta il medesimo nome) meta di sosta per i viandanti di ogni sorta, qui vi trovavano assistenza poveri e gli ammalati, trovavano rifugio e ristoro anche pellegrini, ma anche i contrabbandieri di sale che attraversavano le Apuane passando per la foce di Mosceta e arrivavano in Garfagnana (e viceversa). Un tragitto duro e faticoso e l’Isola Santa rappresentava un punto di passaggio obbligato per tutte queste persone.

vista sul borgo di isola santa

Di lì passavano percorsi anche importanti come la Via Clodia Secunda, allora vera e propria spina dorsale della nostra valle. Secondo alcuni storici “l’hospitale” faceva parte di un piccolo paese fortificato con una modesta cinta muraria, un vero e proprio avamposto che serviva appunto da “posto di guardia”, data la sua strategica posizione nella stretta valle.

Le scarne cronache medievali inoltre ci parlano anche di questa piccola comunità che viveva nel paese in estrema povertà, dovuta anche ad un collegamento con i centri abitati più grandi tremendamente disagevole. Per descrivere questo aspetto nel 1615 Costantino Nobili partito da Lucca per un ispezione al ricovero diceva: ” Strade tanto cattive sono da Castelnuovo in là, che conviene andar la maggior parte a piedi”.

La cosa più interessante e curiosa è che questa condizione d’isolamento durò ancora per secoli, quando finalmente nel 1880 venne costruita la celeberrima galleria del Cipollaio che assicurava ben più agevoli collegamenti e sostituì una volta per tutte l’impervio tracciato medievale. Rotto quell’incredibile isolamento finì però la pace. Il cosiddetto progresso arrivò anche lì e nel 1949 venne costruita la diga per lo sfruttamento della Turrite Secca e il piccolo borgo fu in parte sommerso (non interamente come Fabbriche di Careggine), come alcune case, un ponte ed un mulino (anche oggi sotto il lago).

Isola Santa Garfagnana

Il peggio doveva ancora arrivare. Il borgo ormai agonizzava, si scoprì che tutto il paese aveva problemi di stabilità. Problemi dovuti alle grandi escursione giornaliere d’acqua, imposte dalla società elettrica di allora la Selt Valdarno (futura E.N.E.L). La situazione venne risolta alla fine degli anni 70, ma ormai lo spopolamento era avvenuto e danni irreparabili erano già stati fatti. L’Isola Santa era diventato un paese fantasma, era stato abbandonato. Nel 1975 gli ultimi abitanti rimasti, durante uno svuotamento del bacino artificiale, occuparono il paese in segno di protesta per rivendicare il diritto a case nuove e sicure.

La lotta in buona parte ebbe successo, le abitazioni nuove furono costruite altrove e fu il definitivo de profundis per l’intera comunità. Oggi il tutto rientra in un egregio piano di recupero storico ambientale voluto dal comune di Careggine e la regione. Le casette di pietra dai tetti in ardesia sono quanto resta del nucleo originale. Pittoresca e ben conservato oggi è l’Isola Santa, meta di turisti da ogni dove. Un posto ideale per raccogliere funghi, pescare e dedicarsi all’escursionismo. Numerosi sentieri si addentrano nella boscaglia, verso le maestose cime della Alpi Apuane.

referendum costituzionale 1946

Che brutta “bestia”! Molti dicono che è un male necessario, altri dicono che senza si potrebbe vivere meglio, alcuni la dividono in due categorie: in quelli che la fanno e in quelli che ne approfittano. Personalmente mi piace molto la definizione che ne dette Ronald Reagan, il 40° presidente degli Stati Uniti d’America, che così disse: “La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. Certe volte trovo che assomigli molto alla prima”.

Già, la politica, un argomento delicato, difficile da affrontare e pericoloso da trattare, ma prendiamone atto e approfondiamo la questione, d’altronde con la politica ci si vive tutti i giorni e poi i fatti narrati risalgono a una Garfagnana di settantuno anni fa e alle elezioni, referendum compreso, più importanti della nostra Italia repubblicana. Sì, infatti correva l’anno 1946, l’Italia era uscita da oltre vent’anni di dittatura e finalmente si poteva esprimere liberamente al voto.

 

La Garfagnana (o meglio buona parte di essa) affrontò le votazioni prima di tutti con le elezioni amministrative del 10 marzo 1946, i comuni di Careggine, Castelnuovo, Castiglione, Gallicano, Giuncugnano, Piazza al Serchio, Pieve Fosciana, Sillano, Trassilico, Vergemoli e Villa Collemandina scelsero il loro primo sindaco post-guerra e finalmente, cosa da non dimenticare, per la prima volta le donne garfagnine andarono a votare.

Arrivò poi lo storico 2 giugno 1946 e le elezioni politiche che determinarono l’Assemblea Costituente a cui sarebbe stato dato il mandato di redigere la nostra Costituzione, in contemporanea attraverso un referendum si doveva scegliere fra la Monarchia o la Repubblica. I risultati di ciò nella nostra valle da un certo punto di vista furono clamorosi, ma analizzando bene furono in tendenza con quello che era la nostra tradizione, la nostra cultura e il nostro modo di vivere. Certo, quello che si sarebbe presentato davanti alla nuova dirigenza politica locale e nazionale non era un compito sicuramente facile, anzi, la guerra aveva distrutto le case e il morale delle persone e c’era da ricominciare proprio da lì, a dare nuove speranze, ad aver nuovamente fiducia nella vita e nella politica.

In Garfagnana, però, il quadro della situazione prima di quelle elezioni non era certo idilliaco: morti da piangere, odi personali e tra fazioni che impiegheranno anni per sopirsi, processi da celebrarsi per le violenze subite, ponti, strade e ferrovia da ricostruire, bombe e mine da rimuovere.

La situazione nelle valle era talmente grave che furono istituiti comitati “Pro Garfagnana” per la raccolta di fondi a sostegno della ricostruzione, ma già nel settembre 1945 a soli cinque mesi dalla fine della guerra e nello stile della più classica delle storielle all’italiana ci si domandava dove fossero finiti quei soldi. Da un punto di vista occupazionale forse la situazione era anche peggiore, nel gennaio 1946 i reduci di guerra e i disoccupati minacciavano l’occupazione della “Metallurgica” di Fornaci di Barga se entro breve tempo non fossero stati riassunti a pieno titolo, dall’altro canto l’azienda invece continuava a licenziare costretta a riconvertire la sua produzione da bellica in civile.

La “Valserchio” (n.d.r:fabbrica tessile) a Castelnuovo che dava lavoro a trecento operai, adesso era completamente distrutta, l’estrazione del marmo fonte di reddito vitale per l’Alta Garfagnana versava ormai da anni in una profonda crisi, ma non solo, i disoccupati di Molazzana passarono alle vie di fatto occupando il comune e accusando gli amministratori di scarso impegno nei loro confronti. Di fronte a tutto questo c’erano gli “sciacalli” che approfittando della crisi occupazionale vendevano merce di prima necessita al mercato nero a prezzi altissimi, la grave recessione sfociò in una grande manifestazione di piazza dove si chiedeva che i salari fossero adeguati ai prezzi esorbitanti.

Anche l’ordine pubblico non si riusciva a domare, molti garfagnini nonostante la fine della guerra nelle loro cantine conservavano armi degli eserciti in ritirata, praticamente la Garfagnana era ancora un arsenale a cielo aperto. Il colonnello americano Hamilton (commissario provinciale alleato) emise diversi bandi in cui ordinava di consegnare le armi e di cessare anche gli atti di violenza. Vendette politiche trasversali si stavano infatti consumando in tutta la Valle e per di più in tutto questo caos generale trovò terreno fertile anche la delinquenza comune che rapinava i denari a persone comuni (ma sopratutto ai commercianti).

Malgrado tutto, un barlume di speranza affiorava e le buone notizie cominciarono ad arrivare, il governo centrale esentò per due anni la Garfagnana dal pagamento delle tasse, la voglia di vivere cominciava a fare capolino e le richieste per aprire sale da ballo furono numerose, riaprirono anche i cinema, le fiere paesane (seppur a ritmo ridotto) ripresero vita, rinasceva così anche l’associazionismo: le Misericordie, i circoli culturali, le pro loco, rinacquero anche i partiti, vecchi e nuovi, e la vita politica riprese forza e vigore.

A Castelnuovo nel settembre ’45 si tenne il primo congresso locale del Partito Comunista, idem a San Romano dove la sezione contava già più di cento iscritti, altri partiti come il Partito d’Azione, il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana cominciavano ad “affilare le armi” per la tornata elettorale che sarebbe avvenuta di lì a poco tempo. Ci furono così i primi comizi politici nella valle, personalità che sarebbero diventate di spicco nel panorama nazionale visitarono la Garfagnana, su tutti il futuro Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi (democristiano). Insomma, questa era la situazione generale della Garfagnana, questi erano i gravi problemi che dovevano risolvere i nuovi amministratori e in quel 10 marzo 1946 i primi risultati delle prime elezioni (amministrative) libere parlavano già chiaro:

Iscritti % Voto D.C Blocco Sinistre Indip Indi
Careggine  945 76 / /
Castelnuovo 3998 65 16 4 / /
Castiglione 2135 59 16 4 / /
Gallicano  2908 78 16 4 / /
Giuncugnano  4 4 3
Piazza al Serchio 1787 70 12 3 / /
Pieve Fosciana 3 12 / /
Sillano  6 / 9 /
Trassilico  1152 89 / / 12 3
Villa Collemandina 1293 75 12 3 / /
Vergemoli 948 81 3 / 12 /

La Democrazia Cristiana mise così il suo suggello nella Valle del Serchio, un suggello che durerà per quasi mezzo secolo, ed effettivamente analizzando quello storico voto vediamo che i comuni dei centri più importanti della Garfagnana erano in mano al partito scudo-crociato: Castelnuovo, Gallicano, Castiglione e Piazza al Serchio. Il blocco delle sinistre si affermava in un solo comune: Pieve Fosciana.

Probabilmente quell’antico nucleo locale comunista, stroncato violentemente dalla forze nazi-fasciste non era morto, anzi nel tempo aveva continuato a vivere in clandestinità facendo proseliti fra gli abitanti del posto. Il dato più interessante viene dai cosiddetti Indipendenti, dei populisti ante-litteram che avevano una visione della politica molto vicina alle idee delle persone, infatti non avevano fiducia nei partiti e nella politica in generale.

Il loro pensiero sostanzialmente diceva che un comune per essere ben amministrato non occorre che sia comunista, socialista, repubblicano o cattolico, un buon comune ha bisogno di buoni amministratori, tutti quegli amministratori che sono legati ad un’idea politica sono di parte e non farebbero il bene della gente. Queste idee portarono gli Indipendenti a conquistare ben cinque comuni (così come la D.C): Careggine, Giuncugnano, Trassilico, Vergemoli e Sillano, proprio in quei comuni dove la lotta partigiana era di casa. Questo lascia pensare che nonostante tutto quelle lotte e quelle idee partigiane non siano state comprese dalla gente, oppure questa riluttanza era dovuta a una mentalità conservatrice tipica della Garfagnana dell’epoca.

La riconferma di questa mentalità si riebbe clamorosamente due mesi più tardi quando ci furono le elezioni per la Costituente e il referendum Monarchia o Repubblica. I dati sul referendum sono impressionanti:

REPUBBLICA  MONARCHIA
Camporgiano  40,8% 59,2%
Careggine 29,7% 71,3%
Castelnuovo  46,6% 53,4%
Castiglione 24,1% 75,9%
Fosciandora  13,7% 84,3%
Gallicano 53,5% 46,5%
Giuncugnano  19,5% 81,5%
Minucciano  37% 63%
Molazzana 28,4% 71,6%
Piazza al Serchio  45,9% 54,1%
San Romano  48% 52%
Pieve Fosciana 48,1% 51,9%
Sillano  46,9% 53,1%
Vagli 48,3% 51,7%
Vergemoli 31,3% 51,7%
Villa Collemandina 20,4% 79,6%

(*i numeri sono espressi in percentuale: Garfagnana monarchica con il totale del 61,5%)

La Garfagnana al grido di “W il re” risultava irremovibilmente monarchica, un solo comune, Gallicano, era repubblicano, ma il resto della comunità confermava Umberto II Re d’Italia. Fanno sensazione i numeri di comuni come Fosciandora che con l’84,3% dei voti si affermava come il comune più monarchico della Garfagnana a ruota seguivano con percentuali altissime Giuncugnano, Villa Collemandina, Vergemoli, Castiglione e Careggine. La provincia di Lucca risultava invece repubblicana con il 57,7%, così come il resto d’Italia con il 54%.

I dati garfagnini facevano profondamente riflettere: in sintesi premiavano quella monarchia che aveva consegnato il potere a Mussolini e che aveva portato alla guerra civile. D’un tratto la guerra vissuta sulla propria pelle, le lotte partigiane, i lutti e le macerie sembravano che non avessero sortito nessun effetto sulla loro coscienza, prevaleva quindi l’indole conservatrice, la nostra paura atavica della novità e il timore di lasciare la strada vecchia per quella nuova.

Questo conservatorismo si riflesse anche sull’elezione dell’assemblea Costituente, le radici fortemente cattoliche della Valle del Serchio e l’influenza dei preti sulle persone premiarono la Democrazia Cristiana con percentuali totali, addirittura più alte di quelle referendarie pro monarchia, con il 66% dei voti la D.C surclassava tutti gli altri partiti che si dovettero accontentare delle briciole (P.C.I e P.S.I ottennero insieme il 24%).

Dopo cinquant’anni la Garfagnana aveva però un suo rappresentante parlamentare, l’onorevole Loris Biagioni (D.C). Quello che accadde dopo queste votazioni fa parte di tutto quel bagaglio politico tipicamente italico che ormai conosciamo bene. Coloro che durante la guerra avevano compromesso fortemente il loro passato, senza vergogna alcuna fecero ben presto a salire sul carro del vincitore. Emblematico fu quell’episodio che riportò al tempo sulle proprie pagine “La Gazzetta del Serchio” e che accadde al già citato colonnello Hamilton, quando in una delle sue visite in Garfagnana si fermò a Camporgiano.

Tutte le autorità comunali accolsero l’importante ospite, fra queste autorità: “…c’era un fascistone conosciuto in tutta la provincia per le altissime cariche ricoperte nell’ex partito nazionale fascista, tra cui marcia su Roma, fascia littorio, membro federale, fondatore dei fasci in Garfagnana. Ecco, allora vorremmo sapere chi sono i componenti di questo comune per non conoscere l’attività deleteria del dottor XYZ, svolta in venti anni di regime fascista. Forse questi signori vivono in un altro mondo? Conoscevano per fama la sfacciataggine di questo gerarca, ma non fino a questo punto…”.

Di questo clima se ne accorsero di più e meglio coloro che tornarono dai campi di prigionia e che avevano subito angherie inverosimili da questi aguzzini, il loro sbigottimento era totale: “Le cose continuavano come prima, chi aveva collaborato con il nemico continuava imperterrito nel proprio lavoro avendo cambiato solo casacca” .
Così la Garfagnana e l’Italia entravano nell’era repubblicana.

omo morto in garfagnana

Tra la Pania della Croce e la Pania Secca c’è il profilo di un gigante addormentato. Tutti lo conoscono come “l’Omo Morto” ed è facilmente riconoscibile soprattutto dal pease di Pieve Fosciana e nei dintorni di Careggine. La leggenda si perde nella notte dei tempi e si narra che in un momento senza tempo la Pania della Croce non era unita alla Pania Secca e tra le due vette si estendevano vasti prati dove i pastori conducevano in estate i loro greggi.

In quel tempo le pecore riempivano i declivi dei monti dove pascolavano tranquillamente sotto l’assonnato occhio dei pastori. Uno di questi si innamorò di una bella pastorella e da lei era ricambiato. Il loro rapporto ogni giorno si faceva più gioioso e spensierato: le corse sui prati, le ghirlande di fiori, diventarono momenti indimenticabili. Con il passare dei giorni, però, il giovane sentiva il richiamo del mare, vedeva in lontananza i bastimenti che solcavano il mare di Pisa, Repubblica Marinara, centro di traffici commerciali e di ricchezza.

Pania della Croce Garfagnana

La pastorella incominciò a preoccuparsi del suo innamorato tanto che la serenità dei giorni felici era svanita. Al volgere dell’estate il pastore trovò la forza di dare una spiegazione alla pastorella: voleva navigare, conoscere il mondo. Così fece e un giorno partì verso il mare. La giovane rimase così sola sulle aspre montagne. I giorni ed i mesi passavano e la pastorella trascorreva i mesi invernali davanti al fuoco del camino pensando sempre al suo amato sperando che prima o poi facesse ritorno. Tornò l’estate e con l’estate si ritornò a pascolare sui monti.

I fiori e il cielo blu erano un inno alla gioia ma non per la pastorella, il suo sguardo e le sue preghiere erano sempre rivolte verso il mare sperando in un vano ritorno. Ma sapete come vanno le cose anche quando l’ultima delle speranze è perduta? Un opportunità viene sempre concessa e difatti un altro ragazzo si accorse della pastorella e si innamorò della sua triste bellezza, ma lei fuggiva ogni contatto e la sua speranza era sempre rivolta verso il mare. Arrivò poi finalmente il giorno che confidò la sua pena al ragazzo.

Il giovane appreso lo stato d’animo della pastorella e spinto dal grande amore per lei salì sulla vetta della Pania della Croce e si rivolse a Dio e gli chiese come fare per far sì che la ragazza dimenticasse il suo amore lontano. Solo una era la soluzione: impedire alla giovane di vedere il mare, ma a che prezzo! Il ragazzo avrebbe dovuto sacrificarsi e lasciare che il suo volto venisse trasformato in quello di un gigante di pietra che avrebbe unito le due Panie, nascondendo così la vista del mare.

Egli accettò, lasciò che il suo volto venisse impresso per sempre tra le Apuane e ricordato da tutti nei secoli a venire come “l’Omo Morto”.

briganti in garfagnana

Costa da Ponteccio, il Pelegrin del Sillico, Virgilio da Castagneto, Filippo Pacchione, Battistino e Bernardello da Magnano, nonchè Bastiano Coiaio.

Questo elenco di persone non si riferisce certo a uomini di qualche ordine francescano, tutt’altro, erano fra i più spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto. A guardare oggi la nostra valle e coloro che la abitano è difficile pensare che la Garfagnana sia stata secoli fa terra di briganti. La pacifica gente che ora vi dimora è discendente dei sopra citati manigoldi, che niente avevano da invidiare agli attuali seguaci delle associazioni a delinquere che sono in Italia.

Eppure era così e l’apice di questo fenomeno fu toccato ben 500 anni or sono. Semmai vi fossero ancora dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostile ed al quanto difficile da gestire, possiamo citare la testimonianza di Guido Postumo, governatore della Garfagnana nel 1512. La lettera fu inviata al cardinale Ippolito d’Este: “Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa

briganti in garfagnana

alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch’io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch’io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua”.

Il governatore è malato e la causa della sua malattia sono “questi homini inobedienti” e se qualora non venisse rimossò da queste terre “gie lasserò la vita”. Ma perchè eravamo così tremendi e terribili? Quali furono le cause che ci portarono a diventare dei briganti crudeli e spietati? Analizziamo allora dove ebbe origine il male. Il brigantaggio garfagnino affonda le sue radici nella povertà e nella miseria più nera. All’inizio ci fu una forte complicità fra il misero e il signore locale, un’intensa connivenza che con il tempo assunse una forza tale da vincere lo Stato stesso, tanto da permettere a questa gente di farsi leggi e regole per conto proprio.

briganti in garfagnana

Uno stato debole dunque, che con gli anni capì che questa gente era meglio farsela (segretamente) amica, anzichè nemica. Tale atto fu “la benedizione” del brigantaggio garfagnino che cominciò a spadroneggiare in lungo e largo. Qualcuno al tempo nella corte estense si accorse dell’errore e invece di battersi il petto e recitare il “mea culpa” cercò di “lavarsi l’anima” come meglio poteva. Certe relazioni di funzionari, infatti tentarono di attribuire il fenomeno all’indole della popolazione, non accorgendosi poi che la politica che stavano portando avanti avrebbe ancor di più ingrossato le fila di questi biechi malviventi. D’altronde le tasse erano diventate altissime e cieche, e andavano a colpire proprio una popolazione già di per sè povera.

La stessa amministrazione della giustizia aveva grandi lacune, si mostrava infatti forte con i deboli e debole con i forti e in più esisteva un forte pregiudizio sul garfagnino, la sua terra dallo stato stesso era considerata un territorio di serie B, abitato da semplici montanari e da ignoranti pastori, senza dire poi che la conformità della montagna era luogo ideale per imboscate e allo stesso tempo era l’ambiente perfetto per nascondersi o rifugiarsi. Insomma, nonostante qualsiasi analisi fosse stata fatta al tempo, si può dire che il gioco era fatto: da uno parte avevamo uno stato complice e dall’altra c’era un popolo scontento del proprio governo. A godere a pieno di questa situazione erano i briganti che per i popolani erano dei giustizieri e dei vendicatori di un inetto stato, come pure dei benefattori che sapevano furbescamente ingraziarsi la gente facendo delle regalie (sopratutto cibarie) distribuendole a destra e a manca. Dall’altra parte invece quali potevano essere i vantaggi che il governo estense poteva ottenere da questi farabutti?

 

Naturalmente l’impunità di questi ribaldi aveva un prezzo. Giust’appunto molti briganti nostrali furono assoldati come mercenari nell’esercito estense, più di una volta i briganti non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso della guerra che consentì ai duchi estensi di riappropriarsi di Reggio Emilia, o perchè non ricordare di quando i briganti difesero la Fortezza delle Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X? Mettiamoci allora nei panni di quei poveri governatori della Garfagnana che erano costretti a negoziare continuamente con il duca ai margini della propria autorità. Nella maggior parte dei casi il duca invitava proprio ad una certa moderazione su questi personaggi e quando il governatore calcava (giustamente) un po’ la mano ci pensava proprio il duca in persona, come quella volta che nel 1523 il Moro del Sillico fu arrestato e poco dopo fatto evadere con la complicità delle guardie, ottenendo poi dal regnante di casa estense, prima la grazia e poi un nuovo contratto da mercenario.

 

Malgrado questi intrighi e raggiri è giusto delineare bene la figura del brigante. Era un criminale o un Robin Hood? Per sgombrare ogni dubbio il brigante era colui che viveva di rapine, era un bandito, un masnadiere, un soldato mercenario che imperversava nella valle, ognuno nella sua zona di appartenenza. Tutto questo lo capì perfettamente e più di qualsiasi altra persona Messer Lodovico Ariosto, governatore di Garfagnana dal 1522 al 1525. In Garfagnana però non c’era tempo per fare il poeta, il suo compito principale fu quello di estirpare il brigantaggio da queste terre e si può dire senza ombra di dubbio che cercò di fare il possibile e anche di più per assolvere al meglio il suo dovere. Con il dovuto rispetto lo potremmo paragonare ad un Giovanni Falcone “ante litteram”, fu un attento analista dei (mis)fatti garfagnini e delle dinamiche politiche e sociali che lo circondavano: “Ogni terra in sé stessa alza le corna, che sono ottantre, tutte partite, da la sedizion che ci circonda” . Ottantatre comunità “in sedizion”, ovvero lo scontro fra le parti, è il primo e principale problema con cui si scontrò l’Ariosto al suo arrivo in Garfagnana.

In una sua lettera inviata agli anziani di Lucca il poeta aveva già ben chiaro il quadro della situazione: “Di tutte queste montagne li assassini et omini di mala conditione sono signori, e non il papa, nè i fiorentini, nè il mio Signore, nè vostra Signoria”. Significativa è la lettera che scrisse poi al Duca, è il 29 novembre 1522: “… questo poveromo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal figliolo e dal nipote di Bastiano Coiaio (n.d.r: noto brigante) e da Ser Evangelista, a provare se per mezzo loro potesse riavere la sua roba, non avendo potuto far niente è ricorso da me”. I garfagnini quindi sapevano bene e bene avevano chiaro quali erano i rapporti di forza. Rapporti che erano regolati dai leader di fazioni opposte che regnavano incontrastati per l’assenza di un’aristocrazia radicata capace di controllare il territorio. Un vuoto di potere assordante che se associato agli scarsi mezzi repressivi messi a disposizione dagli ufficiali del governo consegnò di fatto ai capi delle famiglie (di briganti) più importanti il ruolo di regolatori di conflitti e di garanti della pace.

briganti in garfagnana

Queste famiglie costituirono con il passare degli anni una vera e propria mappa del potere, ogni famiglia era suddivisa in bande (composte più o meno da una quindicina di elementi) e ognuna di queste controllava una parte di territorio, naturalmente come sempre succede anche il connubio politica-potere andò a braccetto. Ogni fazione era legata ad una parte politica a cui fare riferimento. Tutto questo lo svelò (proprio come fece Falcone 500 anni dopo con le cupole mafiose) Ludovico Ariosto che delineò un rigoroso quadro delle famiglie (di briganti) presenti in Garfagnana, suddividendole proprio per fazioni politiche. Esistevano quindi due parti, una denominata “italiana”, favorevole alla Chiesa e a Firenze e una cosiddetta “francese”, favorevole agli Estensi, che era tradizionalmente legata alla politica francese. La parte “italiana” era guidata da Pierino Magnano, Tommaso Micotti e Bastiano Coiaio e aveva il suo braccio armato in diverse bande, fra le quali spiccava quella del Moro del Sillico e dei suoi fratelli. Altre bande armate invece erano all’interno della giurisdizione estense e sia nei territori di Firenze che in quello della Chiesa curavano gli affari delle fazioni più lontane.

La parte “francese” era altresì guidata dai Ponticelli e dai Sandonnini. Per ben capire, entrambi le parti agivano su diversi livelli, da quello puramente criminale a quello istituzionale, dove cercavano di ricoprire il più possibile cariche pubbliche attraverso una miscela di consenso e minacce. Di fronte ad un quadro generale così disperato non rimaneva che un’unica soluzione: repressione totale e così l’Ariosto scriveva: ” Metter le mani addosso a’ loro padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre, saccheggiare le case, e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori (n.d.r.: alberi) e distruggerli loro luoghi, ch’ogni modo non si potria trovar chi li comprasse. Poi saria bene battere per terra tutti li campanili, o vero aprirli, di sorte che potessino dar ricorso alli delinquenti et similiter le rocche che vostra eccellenza non vuol far guardare”. Certo, il duca nascondeva questi malfattori nelle proprie fortezze e come fare allora se oltre a questo al povero governatore venivano negati anche i soldati per attuare questo drastico piano?: “Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore Nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi abbian paura di me”.

briganti in garfagnana

La richiesta di fanti fu esplicita, peraltro molto più utili di quei solo dodici balestrieri che erano a disposizione, questi fanti nei terreni accidentati e nelle profonde gole garfagnine infatti erano i più adatti, ma non furono inviati né gli uni e né gli altri. Per l’Ariosto questa mutilazione della sua autorità fu un problema non solo politico ma anche umano, senza l’appoggio del duca la sua figura perdeva di valore, essendo così alla mercè dei fuorilegge. Il suo morale era quindi “sotto i tacchi”, tanto che arrivò ad ipotizzare di fuggire di notte per trovare rifugio a Ferrara. Non lo farà, ma in una lettera del 15 gennaio 1524 fece come il suo predecessore Guido Postumo, la richiesta fu la medesima che il suo collega aveva fatto dodici anni prima: “Se vostra eccelenzia non mi aiuta a difender l’onor de l’officio, io per me non ho la forza di farlo; che se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra eccellenzia li assolva, o determina in modo che mostri di dar più lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l’autorità del magistro. Io vo’ gridare a farne istanzia, e pregare e suplicare vostra eccelenzia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna”.

Francesco Saverio Sipari (politico, poeta e scrittore del XIX secolo) parlando del brigantaggio in generale ebbe a dire che tale fenomeno si sarebbe esaurito con la rottura dell’isolamento delle regioni dimenticate, che in buona parte era dovuto dall’assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade, di ferrovie e sopratutto d’istruzione. Così fu per la Garfagnana, man mano che i secoli passavano la valle cominciò ad aprirsi al mondo e più si apriva e più i briganti sparivano. Così il libro vinse per sempre sullo schioppo.

Bosco del Fatonero

Ci sono dei luoghi in Garfagnana che sembrano usciti dalla saga fantasy de “Il Signore degli Anelli” di Tolkien.

Posti meravigliosi, dalla vegetazione fitta e verdissima, ma sopratutto luoghi magici, popolati da esseri misteriosi, da folletti e da fate, insomma, leggendo le pagine del celebre romanzo sembra che Tolkien paradossalmente si sia ispirato niente meno che  al bosco del Fatonero. Vi invito dunque a leggere queste righe e ditemi voi se non pare di essere nella mitica Terra di Mezzo o a Gran Burrone, invece no, siamo nel comune di Vagli di Sotto.
Il Fatonero è un bosco abbarbicato sulle coste del Monte Fiocca (nelle Alpi Apuane) pieno di fascino e di mistero che si percorre con piacere per dirigersi da Arni al Passo Fiocca ed oltre. Si tratta di una macchia verde scuro, che cambia colore con le stagioni. Questa meravigliosa e magica faggeta si trova a 1.400 metri di quota. Un posto che si può considerare senza dubbio “l’epicentro” delle leggende apuane. Da sempre queste montagne, infatti, hanno generato molte storie fantastiche e già il nome di per sé è tutto un programma. Si dice che l’origine di tale denominazione sia da ricercarsi da “Fatto nero” per un possibile omicidio accaduto in quel bosco di cui nessuno ricorda più niente, per altri invece deriva da “faggio nero”, si dice che gli alberi vi crescessero così fitti e robusti che a malapena vi penetrava la luce del sole.

In ogni caso è qui che nasce tutto, qui c’è la genesi dei vari miti garfagnini (il buffardello, l’omo selvatico,le fate…) che sono giunte a noi oggi, qui in questo luogo sopravvivono millenarie leggende che testimoniano la presenza dell’antico popolo dei Liguri-Apuani, con il loro culto degli alberi e degli spiriti tutelari della foresta. Si crede che in questo bosco vivono ancora oggi folletti che di notte vagano danzando in cerchio laddove la luna riesce a far filtrare la propria luce attraverso la fitta boscaglia, creando magicamente dei giochi di luce.
Chi ha attraversato questo bosco di notte dice che sia riuscito a sentire suoni inspiegabili e mai sentiti da orecchio umano, sospiri, lamenti e premonizioni sul futuro e fortunato quel passante che sempre fra le tenebre attraversando il bosco non viene disturbato dai folletti, poichè possono guidarlo sui sentieri che solo loro conoscono, oppure gli possono creare l’impressione di avere le fiamme d’intorno, solo le campane dei paesi vicini che suonano il mattutino fanno svanire l’incantesimo e i folletti che si trovano ancora all’aperto si pietrificano. Anche in pieno giorno la sensazione che si ha attraversando il Fatonero è quella di essere osservati, si ha quasi la certezza che ogni  passo sia controllato, tanto è vero che con l’arrivo della luce del sole i folletti (protettori di questo bosco) sono prigionieri dentro il tronco degli alberi e la voce del vento che passa attraverso questi alberi a chi la sa capire, intende rivelare dove si trovi un meraviglioso tesoro nascosto, in quel bosco dal tempo immemorabile.

Tale tesoro sembra scaturito da una vecchia storia lontana che racconta che un pastore in questa fittissima faggeta vide una bellissima fata vestita di bianco con una corona di foglie in testa, il giovane pastorello la invitò a ballare e mentre lui suonava lo zufolo vide che la fanciulla ballava talmente leggera da essere sospesa nell’aria,il pastore in segno di amicizia le donò dei fiori freschi che si trasformarono in tante monete d’oro appena la fata li ebbe toccati, da quel giorno tale tesoro è sempre nascosto nel bosco e non è stato ancora trovato, che non sia per caso nelle grosse buche che si aprono tutt’intorno a questa boscaglia e fra le radici degli alberi stessi? Questi pertugi portano alle abitazioni di strane creature sotterranee, che siano loro i nuovi padroni delle monete d’oro?

Molte di queste buche a onor del vero sono state provocate dalle grande quantità di fulmini che li si abbattono, si pensa che vengano attirati dalla quantità notevole di ferro presente nella roccia, ma antiche tradizioni parlano di un luogo dannato a causa degli antichi riti pagani che si celebravano e sul quale si scarica l’ira divina. Questa dannazione è confermata dalla presenza degli streghi, qui si radunano e vanno a ballare nel canale dell’Acquarola,vagano nel bosco come sciami di insetti luminosi e si posano sugli alberi emettendo suoni simili a dei pianti di neonato, non è difficile nemmeno vederli come lenti ragni che si arrampicano sulla corteccia dell’albero, o osservarli svolazzare da farfalle impazzite, possono inoltre fare delle malie e chi attraversa il bosco è bene che si fornisca di rosario e impari anche questa formuletta: “Gesù, Giuseppe e Maria tenete gli streghi lontano dalla via”.

Non sono mancate nemmeno storie di cronaca nera, quando un fulmine in pieno giorno uccise il figlio del pastore del luogo che era stato invitato da un altro pastore a mangiare polenta nel suo rifugio. Non arrivò mai a mangiare quella polenta, il suo corpo fu trovato morto appena fuori dal bosco colpito da una saetta.

Un luogo così, cari lettori non può che esistere solo in Garfagnana: fate, streghi, folletti, esseri sotterranei, maledizioni e tesori. Nemmeno la più fervida fantasia di Tolkien o di qualsiasi altro scrittore avrebbe pensato tali cose, ma le nostre storie e le nostre leggende partono da molto lontano, dai riti e dalle tradizioni degli antichi Liguri-Apuani che meravigliosamente attraverso i millenni sono giunte fino a noi e a noi oggi sta l’arduo compito di non farle dimenticare.

Oggi voglio narrarvi le epiche gesta di Cupavo.

Nome ai più sconosciuto oggi e pensare che duemila anni or sono, dopo la sua morte, (succede sempre così) raggiunse livelli di notorietà e fama paragonabili solo agli idoli odierni e anche di più, dato che molti dei suoi contemporanei giurarono di averlo visto risorgere.

Si perchè è bene chiarirsi che gli idoli di allora non erano i cantanti, attori o calciatori, ma al tempo assurgeva alla gloria del popolo chi, in poche parole “stendeva” più nemici. Cupavo era il leader indiscusso della Garfagnana apuana, il più famoso capo apuano che la storia ricordi (così lo definisce Strabone, geografo di epoca romana), conosceva ogni gola e ogni anfratto di quella che sarebbe divenuta la nostra terra.

Il suo racconto si fonde fra fatti reali e leggenda. Strabone ci dice che alla morte di suo padre (pure lui capo tribù) conosciuto con il nome di Cigno, suo figlio terzogenito Cupavo prese il suo posto e per onorarne la memoria e il valore era sua consuetudine ornare il suo elmo con piume di cigno. Cupavo era un grande guerriero dotato di una grande personalità, ma non solo, era riuscito più volte a respingere gli attacchi romani e a saccheggiare perfino qualche accampamento.

La sua presenza si notava ovunque e il suo elmo risplendeva in ogni dove con le sue candide piume. Arrivò poi il giorno della grande decisione, i Liguri Apuani stanchi di essere attaccati presero “il toro per le corna”e decisero di attaccare i romani, attraversarono i monti e raggiunsero il porto di Luni. Gli Apuani prima di partire salutarono le famiglie. Cupavo si avvicinò alla sua giovane sposa con il suo cimiero di piume bianche e la salutò, gli costava molto lasciarla ora che aspettava un bambino e per non cedere alla tristezza e dare il buon esempio ai suoi soldati scese dai monti per primo.

Monte Sumbra

Sul luogo di battaglia i Liguri Apuani si fecero molto onore specialmente Cupavo che si lanciava indomito contro il nemico operando strategie militari da vero condottiero (ebbe a dire in questo caso Lucio Cornelio Merula console romano “Vale più un gracile Apuano che un Gallo robusto”) ad un certo punto però rimase isolato e i romani lo trafissero con le lance, poi gli tagliarono la testa e portarono via il corpo. Grande fu il dolore dei compagni che raccolsero la testa con l’elmo di piume e fecero ritorno fra le loro montagne.

Quando l’esercito raggiunse le Apuane si racconta che si formò spontaneamente un gigantesco corteo di persone a scortare ciò che rimaneva dell’eroico capo. La povera moglie ormai giunta al momento del parto vedendo il lungo corteo capì e cadde a terra. Come era abitudine degli Apuani seppellirono Cupavo con la sua armatura e un gallo vivo, che con il suo canto alla mattina successiva alla morte risvegliasse il defunto nell’aldilà. Nella stessa notte si accesero i fuochi sui crinali dei monti circostanti per onorare il guerriero ed illuminargli la via verso il cielo.

Volo sul deltaplano in Garfagnana

Ma quando giunse il mattino e i fuochi si spensero si udì il canto del gallo. In quel momento i presenti videro nel cielo una nube luminosa rischiarata dalla luna, il corpo di Cupavo saliva verso l’alto e nello stesso momento si udì il grido di un bambino che nasceva. Era nato suo figlio. Anche lui divenne in seguito il nuovo condottiero dei Liguri Apuani.

Capanna abbandonata Garfagnana

Diamo onore a chi non c’è più. Stavolta, grazie a Dio, non parliamo però di morti, ma di tutti quei paesi in Garfagnana che sono spariti dalla faccia della Terra, dalle mappe di tutta Italia e che sinistramente vengono chiamati “paesi fantasma”. Mi sembra giusto ricordare un po’ tutti questi borghi che, per un motivo o per un altro, sono stati progressivamente abbandonati. La Garfagnana sicuramente è una fra le zone in cui maggiormente è avvenuto questo fenomeno, anche se una volta questi luoghi erano pieni di vita ed attività lavorative, con centinaia di persone a popolarli. Oggi la vegetazione li ha ‘mangiati’ e la memoria li ha cancellati.

Questo articolo non vuole essere, però, un censimento dei paesi abbandonati della valle. Chissà quanti ci sono che non conosco e quanti ce ne sono stati che nessuno ricorda più. Scopriamo meglio, quindi, un fenomeno non tipicamente garfagnino, ma che riguarda sopratutto il nostro Paese. Secondo i dati ISTAT, infatti, in Italia sono quasi seimila i borghi abbandonati, considerando i veri e propri paesi, gli alpeggi e gli stazzi. Ognuno di questi centri disabitati racconta la storia del proprio territorio e la propria intima vita quotidiana. Quando si disquisisce sui ‘paesi fantasma’ bisogna andare a vedere innanzitutto le cause dell’abbandono che possono essere molteplici. Una fra le cause principali può essere determinata dalle forze della natura; viene subito alla mente il centro storico de L’Aquila, distrutto dal terremoto del 2009 e fino a poco tempo fa semi deserto.

Il borgo di Bergiola

Per esempio, nel nostro piccolo esiste (o meglio non esiste più) il borgo di Bergiola nel comune di Minucciano. La sua storia si è sviluppata attraverso i secoli senza particolari problemi fino a quel tragico settembre del 1920 quando (come ben si sa) un distruttivo terremoto colpì l’intera Garfagnana e questo per Bergiola significò una dolorosa fine. Il paese venne così completamente abbandonato. Col passare del tempo la vegetazione si fece fitta ed era difficile anche raggiungerlo e si innescò per questo un clima di mistero e paura. Si racconta che in certi periodi dell’anno ci si poteva imbattere in un mostruoso serpente nero chiamato (dai pochi sfortunati che giurano di averlo visto) Devasto.

Da non sottovalutare nemmeno le cause riguardanti le epidemie. Nei secoli scorsi alcuni alpeggi garfagnini a ridosso dell’Appennino Tosco-Emiliano a partire più precisamente dal 1629 (quando ormai la peste stava dilagando in Garfagnana), furono letteralmente dati alle fiamme dalle guardie governative del Duca di Modena Francesco I d’Este,  per cercare di delimitare il contagio ai centri urbani più grandi. Per questo, come detto, alcuni piccoli abitati dei pastori furono incendiati e di questi centri addirittura non si conosce più nemmeno il nome.

Il borgo di Camperano

Parlando di epidemie, è curiosa la probabile etimologia del nome di Camperano (località che si trova tra Trombacco e Chieva di Sotto nel comune di Gallicano). La storia ci dice che in questo posto venivano portati i lebbrosi da Piastreto, sotto le grotte di Burioni a Trassilico, il prete dava a quegli sventurati la benedizione e guardando in basso verso di loro scuotendo la testa diceva: ” camperanno o moriranno?”. E di lì il nome Camperano.

Fra altre cause possibili la più frequente è sicuramente quella economica. Tutti sanno che nel secondo dopoguerra in Italia c’è stato l’abbandono delle montagne e l’invasione delle città o di quei paesi dove cominciavano a sorgere le industrie. Questi villaggi ‘lontani dal mondo’ e con ormai poche possibilità di guadagno furono lasciati progressivamente deserti fra gli Anni ’50 e ’60 e non scappo a questa regola nemmeno la Garfagnana.

Il borgo di Vispereglia e Col di Luco

Questi paesini vivevano, infatti, di vita propria, in quei tempi in cui il ritmo della vita non era quello di questi anni. Andavano avanti come piccoli ecosistemi autonomi, riuscendo ad avere tutto quello di cui avevano bisogno, grazie alle coltivazioni, alle risorse naturali e all’ingegno delle persone.
Non ci possiamo nemmeno dimenticare, però, delle cause belliche, perchè quando non è la natura è l’uomo a distruggere quanto costruito da sé stesso.

La guerra esiste da quando esiste l’uomo e sono numerosi i paesi distrutti dai bombardamenti della II Guerra Mondiale. A conferma di questo, il paese di Col di Favilla nel cuore delle Apuane nè è un fulgido esempio. Le attività principali degli abitanti erano la produzione del carbone, la pastorizia e la lavorazione dei metalli presso il canale delle Verghe.

Il borgo di Col di Favilla

L’estrazione del tannino dal castagno, destinato alle concerie del pisano, rendeva il paese più vivo che mai e solo i bombardamenti alleati dell’ultimo conflitto mondiale, in cui il borgo subì gravi distruzioni e le allettanti comodità che offriva il fondovalle fecero cessare per sempre il cuore battente di questo ultra secolare abitato. Altro singolare esempio di paese scomparso per cause sempre riguardanti la guerra ed eventuale pericolo di invasione è il villaggio di Monti, situato nel prospiciente colle davanti a Castelnuovo di Garfagnana. Il piccolo paesello annoverava una ‘signora’ chiesa intitolata a San Pantaleone e a San Michele, risalente addirittura al 1045.

Non per questo il duca Alfonso II d’Este si fece dei problemi e nel 1579 non esitò a costruirvi l’attuale e famosa Fortezza di Mont’Alfonso, cosicché lo sfortunato paese fu inglobato letteralmente nelle imponenti mura. Negli anni successivi fu militarizzato e di conseguenza cancellato da qualsivoglia mappa. Può succedere anche che un paese venga completamente espropriato e questo è successo al più famoso di tutti i  ‘paesi fantasma’ cioè Fabbriche di Careggine.

Il Borgo di Fabbriche di Careggine

I giorni che, suo malgrado, lo resero nella memoria di tutti immortale arrivarono all’inizio del 1941 quando la Società Selt Valdarno (l’attuale E.N.E.L) sbarrò il corso del fiume Edron, con lo scopo di costruire un bacino idroelettrico e così tra il 1947 e il 1953 venne costruita la diga (92 metri di altezza) che portò alla nascita del lago di Vagli e alla conseguente morte del paese che ormai già stava sotto a 34 milioni di metri cubi di acqua.

Quando venne sommerso la località contava 31 case popolate da 146 abitanti, un cimitero, un ponte a tre arcate e la chiesa romanica di San Teodoro risalente al 1590. I 146 abitanti che a malincuore lasciarono le loro case furono trasferiti nel vicino paese di Vagli di Sotto oppure in altri paesi della valle.

Il borgo di Isola Santa

Simile fine la fece pure l’antico borgo dell’Isola Santa nel comune di Careggine, ma qui il discorso cambia un po’ e la causa fu da considerarsi antropica. Per antropico si intendono tutti quei fattori che, attraverso la mano dell’uomo, provocano delle reazioni che hanno come risultato (in questo caso) lo spopolamento di un paese. Il più lampante in Garfagnana riguarda proprio Isola Santa. Lì la pace finì nel 1949, quando venne costruita un’ennesima diga per lo sfruttamento della Turrite Secca.

Il centro abitato fu in parte sommerso: alcune case, un ponte ed un mulino. Il peggio però doveva ancora venire, difatti si scoprì che tutto il resto del paese rimasto in superficie aveva problemi di stabilità, problemi dovuti alle grandi escursioni di acqua imposte dalla Selt Valdarno.

La situazione venne risolta alla fine degli anni ’70, ma, ormai, lo spopolamento era avvenuto e danni irreparabili erano già stati fatti. Isola Santa era ormai quasi disabitata. Nel 1975 gli ultimi abitanti rimasti, durante uno svuotamento del bacino artificiale, occuparono il paese in segno di protesta per rivendicare il diritto a case nuove e sicure. La lotta in buona parte ebbe successo, le abitazioni nuove furono costruite altrove, Anche se si trattò della definitiva morte di un’antichissima comunità.

Si conclude così questo piccolo viaggio nei paesi abbandonati della Garfagnana e il mio pensiero va a tutti gli abitanti (ormai quasi tutti scomparsi) di questi borghi e alla tragedia che hanno subito, nel veder sradicate le loro origini, le loro abitudini, dover abbandonare le case e i campi che loro stessi o i loro genitori costruirono e coltivarono con sacrificio e amore deve essere stato uno strazio inimmaginabile e di difficile sopportazione.